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Per amore o per forza
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Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo
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Leggere Donna - 153, 2011
Recensione di Rosella Simonari
Quattro donnine di carta si tengono per mano sulla copertina del libro di Morini, un saggio fondamentale per capire come la precarietà abbia trasformato la vita delle donne e degli uomini e come da essa si possa iniziare ad uscire. Come sottolinea Judith Ravel nell'introduzione, la ricchezza del libro sta nella sua "dimensione d'inchiesta", che permette una visione radicata nella realtà odierna.
Queste donnine di carta sono paradigmatiche in quanto rappresentano una specie di paradigma della condizione lavorativa attuale, delle donne ma anche degli uomini. Infatti con il termine stesso di 'femminilizzazione', come ci dice l'autrice, "si intende non solo l'espansione quantitativa delle donne sul mercato del lavoro, ma anche la messa in produzione dell'attitudine alla relazione e alla cura, storicamente più marcate tra le donne, addestrate per secoli nel ruolo riproduttivo". Per esempio i lavori nei call centre richiedono quella predisposizione all'altro che culturalmente le donne sono educate a sviluppare, ma nei call centre non lavorano solo donne. Agli uomini è quindi richiesto di sviluppare quelle 'qualità' che un tempo venivano relegate alle donne. Il mercato del lavoro si sta trasformando e si sta attualizzando quello che Morini definisce come "un processo di soggettivazione del lavoro".
Lo studio si snoda su cinque capitoli, ognuno dei quali indaga un aspetto della questione. Nel primo si tratta della precarietà, di come essa abbia spazzato via ogni punto di riferimento e di come porti il soggetto a sperimentare un senso costante di transizione. Alla luce di questo discorso, Morini indaga inoltre i limiti del pensiero della differenza sessuale italiano, che ha forse impedito ad un certo femminismo di rapportarsi con questa realtà cangiante delle donne, "penso (…) che il problema principale, per le donne, sia quello di osservare i meccanismi del potere, nel tempo e nella storia". E ancora, "non è forse venuto il tempo che il femminismo si occupi anche dell'ordine sociale?" La precarietà ridisegna continuamente i contorni del sé, mentre il pensiero della differenza, così come è stato rielaborato, sembra risieda in una dimensione atemporale e per questo non è in grado di leggere e trasformare adeguatamente la realtà.
Il secondo capitolo ha a che fare con la femminilizzazione vera e propria del lavoro nell'ambito del capitalismo cognitivo. Si tratta di uno scarto sostanziale, che porta ad un'inedita forma di schiavitù in concomitanza con "lo smantellamento progressivo dello stato sociale". Ecco che quindi "il nostro agire complessivo diventa, sempre più vistosamente, un lavoro produttivo", per cui il tempo di lavoro e il tempo di non lavoro non sono più distinguibili come nel passato e il lavoro entra prepotentemente a far parte della nostra vita a tutti gli effetti. Una possibile soluzione a questa empasse potrebbe essere, oltre ad una riattivazione del welfare, il reddito di sussistenza, "forma minima di riequilibrio economico di tutto ciò che ci viene chiesto di spendere, quotidianamente, sul mercato del lavoro attuale".
Il terzo capitolo affronta la questione corpo, una questione che da tempo sta al centro degli studi femministi e delle scienze sociali. A questo proposito Morini individua una tensione fra l'apparire e l'essere, non tanto nel senso classico del termine, ma quanto nel senso di dover, al giorno d'oggi, interpretare un ruolo, "divenire personaggio tutti e sempre". La relazione fra corpi e precarietà, fra produzione e identità muta secondo nuovi dettami ed i corpi, in particolare, entrano a pieno titolo a far parte della "dimensione produttiva". Di conseguenza la questione legata all'erotismo e alla sessualità diviene strategica per il mercato e porta alla quasi dissoluzione dei ruoli di prostituta o non prostituta. Il corpo si fa merce e il biocapitalismo trasforma la vita stessa delle persone e, in particolare, delle donne. Costola fondamentale di questo discorso è il lavoro di cura non retribuito, un lavoro che appartiene alle donne da secoli e che resta in qualche modo la chiave di volta della situazione.
Il quarto capitolo indaga il rapporto alterato con il tempo, con la costatazione che gli orari di lavoro sono in crescita e la qualità stessa del lavoro si è trasformata e a iniziato ad includere la sfera emozionale: "il lavoro emozionale coinvolge moltissimi settori, tutti quelli che hanno come obiettivo la produzione non di beni materiali ma di benessere". L'ultimo capitolo svela il trucco attuato dal capitalismo e dalla femminilizzazione del lavoro: se un tempo ci si batteva per portare più donne al lavoro, ora il lavoro delle donne, come il lavoro di cura e il lavoro domestico, sono divenuti quasi dei paradigmi per il biocapitalismo, "il modello della cura diviene allora una strategia di governo della complessità (...). (...) si assiste alla generalizzazione del codice della cura, la cui sintassi può uscire dalle case e proporsi al mondo".
Liberazione - 25 maggio 2010
L'intera vita messa a produzione: nel suo ultimo libro Cristina Morini indaga i cambiamenti nei processi produttivi
Donne e lavoro al tempo del biocapitalismo
di Adelaide Coletti
"Vogliamo essere all'altezza di un universo senza risposte" grida ancora il Manifesto di Rivolta femminile del 1970 e l'ultimo libro di Cristina Morini "Per amore o per forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo" (ombre corte/Uninomade, prefazione di Judith Revel, pp.156, euro 15) raccoglie, riattualizzandolo, il senso di questa sfida, che era e rimane la trasformazione sociale. Attraverso una serrata critica ad "un'ortodossia femminista diventata istituzionale", immutabile nel tempo e nello storia, Morini rilancia il pensiero e la pratica femminista a partire dalla condizione di vita delle donne, da un contesto segnato da forme storicamente determinate dei dispositivi di assoggettamento e sfruttamento, di fronte ad una variazione antropologica generata dalle trasformazioni del lavoro. In una crisi che - lungi dall'avere un carattere meramente economico - è crisi di civiltà in cui molteplici sono le contraddizioni come diversi sono i soggetti del conflitto, i femminismi della post-modernità assumono un ruolo centrale nella trasformazione dei modi di analizzare la realtà: la soggettività come molteplicità complessa e in divenire, la critica ad un soggetto donna costantemente naturalizzato, l'esperienza corporeizzata come fondamento di un nuovo materialismo, le alleanze come strategie radicali di relazione tra le differenze. Il libro, che fa parte della collana legata a quell'avventura dell'intelligenza collettiva che è Uninomade, rete di ricercatori e ricercatrici, studenti e attivisti di movimento che tenta di realizzare una connessione delle intelligenze critiche, si compone di una serie di testi in cui vengono indagate le modificazioni dei paradigmi produttivi, quel "divenire donna del lavoro" che suggerisce la natura biopolitica dei rapporti di lavoro attuali, complessivamente intesi. Il sistema fordista di produzione era strutturato su una serie di dicotomie: tempi di vita/tempi di lavoro, lavoro manuale/lavoro cognitivo, dentro/fuori; categorie che oggi sfumano in un continuum biopolitico in cui è l'intera vita che viene messa a produzione. I processi produttivi sono sempre più legati a conoscenze, competenze, capacità relazionali, di comunicazione, che vengono soprattutto acquisite fuori dai tempi di lavoro, ed è proprio lo sfruttamento di queste capacità a rappresentare oggi gli incrementi di produttività. La precarietà esistenziale diventa il perno su cui attualizzare la questione del lavoro domestico non retribuito delle donne che diventa il paradigma delle molte forme di lavoro nella contemporaneità, a partire dal valore prodotto dal lavoro che oggi eccede sempre la remunerazione.?Una lucida e materialistica analisi dei rapporti di potere attuali in cui siamo tutte/i immerse/i che, come Judith Revel sottolinea nella prefazione, condensa dieci anni di sperimentazione e analisi evidenziando la drammatica urgenza di rifuggire da dogmi e tentazioni identitarie per tracciare possibili vie di fuga rispetto al capitalismo per come si dà nella contemporaneità, un biocapitalismo come sistema paralizzante di tutte le attività del pensiero, della lotta, e del desiderio, in cui le differenze sono funzionali all'accumulazione e il patriarcato procede attraverso il depotenziamento del femminile "che non avviene attraverso la sola repressione... ma anche e soprattutto attraverso la progressiva femminilizzazione della società". In un contesto segnato da una precarietà strutturale, il reddito universale e incondizionato, collocandosi nel cuore del conflitto tra capitale e vita, si configura come uno strumento di autodeterminazione. Reclamare reddito per tutte e tutti dunque non significa arrendersi alla precarizzazione del lavoro, né ad una visione assistenziale, ma rendere possibili processi di ricomposizione di ciò che la precarietà ha frantumato, rompere le catene dello sfruttamento, di nuove e vecchie forme di disciplinamento, per liberare tempi, spazi e rendere possibili processi di soggettivazione e autovalorizzazione, al di fuori delle logiche mercantili e parassitarie di un capitalismo onnivoro che pretende di sussumere la vita stessa.
Zeroviolenzadonne.it
di Anna Simone
Era il 1975 quando Martha Rosler, scrittrice e artista, mostrava per la prima volta al pubblico statunitense un video dal titolo piuttosto esplicativo Semiotics of the Kitchen. Martha si fece filmare nella sua cucina mentre mostrava l'uso dei vari utensili dediti al lavoro domestico, li impugnava con gesti fermi e aggressivi come se fossero armi o oggetti contundenti. La calda e accogliente cucina diveniva così il luogo di massima frustrazione per centinaia di migliaia di donne costrette per lustri al ruolo di casalinghe.
Sempre negli anni 70, in Italia, Alisa del Re e Maria Rosa Dalla Costa, davano alle stampe le loro ricerche sul lavoro di produzione e riproduzione delle donne in chiave marxiana. Finalmente per mezzo di produzione non si intendeva più solo la macchina dedita al lavoro fordista, ma tutte le macchine con cui si lavorava e si lavora in casa: lavatrici, elettrodomestici, aspira-polvere etc. Le "faccende domestiche", nonostante fossero state de-valorizzate dal sistema patriarcale, che ha sempre ritenuto "normale" la divisione sessuale del lavoro, diventavano centrali nell'analisi socio-politica e socio-economica di quegli anni. Su questa scia, dopo quasi un quarantennio, Cristina Morini prova a ridisegnare nel suo ultimo libro (Per amore o per forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo, pp. 156, Ombre Corte, con la prefazione di Judith Revel) la geografia del capitalismo contemporaneo attraverso un'analisi densa e fitta dello sfruttamento e della strumentalizzazione del corpo femminile negli attuali sistemi di produzione. Il primo gesto teorico-pratico che compie l'autrice in questo libro parte da una necessità, da una domanda fondamentale: come nominare il femminismo oggi? Lungi dall'appoggiarsi acriticamente su sentieri già battuti (il pensiero della differenza italiano), Cristina prova ad andare oltre il soggetto femminile "naturalisticamente" e "simbolicamente" dato per tentare una strada più complicata e decisamente più interessante: non solo le "donne" sono una soggettività storicamente definita prima dagli uomini e poi anche da se stesse ponendo spesso l'accento solo su un'idea di riproduzione riconducibile, non a caso, alla mistica del materno ovvero alla potenza della riproduzione della specie, ma sono oggi più che mai il vero volano della trasformazione sociale. Porre l'accento su un femminismo che si interroga soprattutto sulla riproduzione sociale e sull'ordine sociale vuol dire, in poche parole, ritornare a pensare i corpi femminili e le differenze sussunte nell'ingranaggio del capitalismo contemporaneo (bio-capitalismo e/o capitalismo cognitivo). Ritornare a pensare se stesse come soggettività la cui vita stessa, nella sua interezza, viene messa al lavoro. I nuovi sistemi di produzione, infatti, si basano su alcuni assunti fondamentali: la precarietà assoluta con tutto quel che ne consegue sul piano della definizione dell'identità di ciascuna e di ciascuno di noi, la rottura della dicotomia tempo di vita/tempo di lavoro (una lavoratrice della conoscenza oggi lavora sempre e guadagna poco), la risignificazione delle categorie spazio-tempo (si lavora anche da casa), il lavoro di cura che sostituisce il vecchio welfare, gli affetti, le qualità relazionali ed emotive vengono esse stesse messe a lavoro. L'insieme di queste caratteristiche del lavoro contemporaneo genera ciò che da più parti viene ormai definito come processo di femminilizzazione del lavoro. Ma si badi bene, la società contemporanea e il capitale non mettono a valore le attitudini storicamente affibbiate al femminile perché ne hanno scoperto doti e meraviglie nascoste, tutt'altro. Quelle stesse doti, all'interno di questo processo, tendono a riprodurre da una parte un femminile stereotipato (si pensi alle donne immigrate costrette, per destino, a fare solo le colf e le badanti); dall'altra nuove ed inedite forme di sfruttamento. Come scrive a giusto titolo Cristina "la teoria del valore-lavoro tende a trasformarsi in valore-vita" completamente sussunta dal bio-capitalismo. Detto in altri termini oggi il patriarcato è nei fatti il nuovo funzionamento del capitale che si femminilizza per sfruttare le attitudini storicamente appartenute alle donne. Se un tempo si avvaleva della forza-lavoro dell'operaio maschio, bianco e padre di famiglia, oggi si avvale di uomini e donne, del loro linguaggio, della loro conoscenza, della loro capacità relazionale, dei loro affetti e delle loro emozioni. Di un'immaterialità della produzione che un tempo veniva affibbiata solo al lavoro di riproduzione. In questo senso la femminilizzazione del lavoro oggi riguarda anche gli uomini. Soprattutto quelli che attraversano la precarietà. Ma non è solo il lavoro che cambia in relazione ai nuovi assetti del capitalismo cognitivo a costituire la cifra principale del lavoro di ricerca messo a punto da Cristina Morini. A trasformarsi è ovviamente anche la percezione dei propri corpi. Tra abulimia, anoressia, depressione ed eccitamento, i corpi femminili del presente tendono sempre più ad omologarsi, a normalizzarsi rispetto ai diktat della società dei consumi. I belli e le belle lavorano di più all'interno di una siffatta economia e allora lì a rincorrere tutte botulino e protesi mammarie tra un call center reale e il sogno di approdare prima o poi al Grande Fratello, mentre Jennifer Lopez assicura il proprio fondoschiena per due miliardi di dollari. Nonostante quest'analisi schietta e per certi versi drammatica sul nostro presente, Cristina Morini riesce a trovare linee di fuga e rovesciamenti interessanti proprio perché lontani da quell'idea secondo cui il lavoro a tempo indeterminato possa costituire l'unico baluardo di felicità possibile. L'unica possibilità che abbiamo per ritrovare un minimo di libertà e di possibilità di scegliere, di autodeterminarci, è data allora dalla rivendicazione di un reddito di base che, coerentemente con le sue analisi sul bio-capitalismo e sulla vita messa a lavoro, l'autrice chiama reddito di esistenza. Un tema che i femminismi di seconda e terza generazione hanno sempre attraversato senza farlo divenire mai centrale. Eppure, senza quella certezza minima, nessuna nostra vita potrà mai davvero essere valorizzata a partire dai nostri desideri e dalle nostre libertà acquisite e da acquisire. Senza quella certezza, infatti, rimaniamo ancorate al nostro nuovo Padre: Monsieur Le Capital. Un padre a cui non si può dire un doppio sì, ma solo un secco, secchissimo "no".
www.donneierioggiedomani.it
recensione di Mara Montanaro
L'ingresso e la presenza delle donne nel mercato del lavoro è un tema variamente affrontato nel corso degli anni. Oltre ai rapporti dell'Istat, riassunti e rielaborati, attraverso una comparazione con altre ricerche, in un volume di Letizia Pruna ("Donne al lavoro") uscito per la casa editrice Il Mulino, vanno ricordati i saggi di Barbara Ehrenreich "Paga da fame" e "Donne globali" pubblicati da Feltrinelli. E se il primo libro della Ehrenreich si sofferma sul mercato del lavoro statunitense, individuando nelle donne la componente più numerosa dei "lavoratori poveri", nel secondo viene analizzato il complesso rapporto tra donne che lavorano e il lavoro di cura delle migranti.
È dunque in tale prospettiva che si colloca il libro di Cristina Morini, giornalista e saggista, che da anni si occupa della condizione lavorativa femminile e dei processi di trasformazione del lavoro.
Il concetto di femminilizzazione non si riferisce alla quantità di impiego della forza lavoro femminile, ma al fatto che le condizioni di lavoro imposte alle donne dieci anni fa sono quelle imposte a tutta la forza lavoro oggi. Questa è una conferma importante del fatto che parlare della femminilizzazione del lavoro vuol dire parlare dell'ingresso massiccio delle donne nel mondo del lavoro, ma non solo. La femminilizzazione è, anche in conseguenza di questo massiccio inserimento, la strategia di abbassamento delle garanzie del diritto del lavoro e l'estensione a tutti delle nuove condizioni precarie fatte alle donne ed anche la loro successiva espulsione dal mondo del lavoro, la loro nuova messa al margine. Le donne si sono già duramente conquistate una prerogativa storicamente maschile come l'accesso al lavoro con il pagamento di un prezzo altissimo in termini di salario, di condizioni, di garanzie e di accettazione della ricattabilità permanente fatta alla donna stessa sulla maternità, sulle ferie, sulla gestione del tempo. Tutto questo è oggi una sorta di patrimonio comune negativo, cioè una sorta di destino comune ormai molto al di sotto di quello che erano tempo fa le condizioni di lavoro. Perfino gli uomini sono oggi suscettibili di dover accettare queste condizioni stracciate. Detto questo, una volta abbassato il livello per tutti, le donne sono di nuovo spinte al margine. All'interno della classica suddivisione tra produzione e riproduzione, funzionale al governo delle fabbriche, la donna in casa era indispensabile per assicurare i bisogni della vita del cittadino che lavorava fuori casa. Oggi accade qualcosa di diverso. Dopo il fordismo, al centro del capitalismo cognitivo o del biocapitalismo, ovvero al centro di un nuovo paradigma di produzione - che si incardina sull'economia dei servizi e sulla cognitivizzazione del lavoro e non più sul posto fisso ma sulla precarietà generalizzata - noi possiamo utilmente riprendere ciò che il femminismo ha già detto a proposito del lavoro domestico (classicamente inteso non-lavoro) per trarne nuove conseguenze. La parete tra privato e pubblico è servita anche a nascondere il possibile sfruttamento di chi lavorava tra le mura di casa.
Il testo composto di cinque capitoli: Razza precaria. Differenza e transizione: alla base della nuova soggettività; La femminilizzazione del lavoro nel capitalismo cognitivo; Il nostro corpo, un lavoratore precario; Qualità e dismisura del lavoro contemporaneo; Reddito, autodeterminazione, politica del comune. Il lavoro di cura come archetipo della contemporaneità spazia dalla biopolitica alla bioeconomia, dalla precarietà al care, dall'intercultura alla sessualità, dai corpi al tempo, dalla produzione alla riproduzione, dal mutamento del paradigma del lavoro al problema della misura del valore-lavoro, dallo sfruttamento della vita alle esperienze di riappropriazione di tutto quello di cui si è stati/e espropriati.
Come ricorda Judith Revel nella prefazione merito del testo è anche interpretare la condizione delle donne all'interno di quello che è oggi l'insieme dei dispositivi di assoggettamento e di sfruttamento, di controllo e di espropriazione in atto. La femminilizzazione del lavoro è anche il nome infatti di un'estensione paurosa delle condizioni di sfruttamento e di assoggettamento storicamente fatte alle donne all'intera sfera produttiva, vale a dire la condizione subita storicamente dalle donne è diventata la misura dello sfruttamento di tutti, paradigma della messa al lavoro della vita. Non esistono più in questo senso i migranti, i precari, le donne e via di questo passo ma c'è una visione della concatenazione degli sfruttamenti. Riconoscendo questa interdipendenza nello sfruttamento forse c'è qualcosa che assomiglia ad un fronte di lotta comune che si apre.
"Diversamente dal passato, oggi il depotenziamento del femminile non avviene attraverso la sola repressione (sconfinamento, esclusione, espulsione dallo spazio pubblico, anche economico) ma anche soprattutto attraverso la progressiva femminilizzazione della società (assorbimento, coinvolgimento). Effettivamente è questa la straordinaria invenzione (scoperta) del biocapitalismo. L'alterità viene inglobata, ottenendo la sua omologazione e sussunzione. In altre parole, la sua scomparsa. Così è cambiato il patriarcato." (cfr p. 126)
Di tale paradigma l'autrice ne elenca diverse caratteristiche a partire da una dimensione d'inchiesta che riappare in permanenza dietro al testo: sovrapposizione totale tra tempo di lavoro e tempo di vita, indistinzione tra produzione e riproduzione, centralità del lavoro di cura, precarizzazione e flessibilizzazione del lavoro salariato, integrazione dentro il lavoro salariato di forme di produzione non retribuite e che eccedono ovviamente il tempo di lavoro, difficoltà a mantenere spazi di autodeterminazione, di soggettivazione e di messa in comune delle esperienze.
" La femminilizzazione del lavoro si manifesta come caduta esplicita dei confini tra produzione e riproduzione, nel momento in cui le attitudini dell'ambito della cura vengono richieste dall'ambito della produzione, si dà nella precarietà e fa leva appunto sull'attività di cura traducendola nel lavoro cognitivo, all'interno del processo di terziarizzazione del lavoro che connota il capitalismo cognitivo" (cfr. 13).
L'autrice mostra come se da un lato la componente cognitiva è presente in tutte le prestazioni lavorative, ma anche in quelle che appaiono più manuali, e aggiunge anche che il lavoro cognitivo non si esaurisce solo nell'utilizzo di intelligenza e relazione: i cognitari sono anch'essi corpo e se il termine lavoro immateriale ha conosciuto una certa fortuna perché poneva l'accento sul fatto che tale attività non prevede un processo di trasformazione della materia, tuttavia il lavoro non è mai immateriale: materialissimi sono i processi di sfruttamento e aggiungo soltanto che non credo ci sia niente di più materiale che badare al corpo di qualcuno non autosufficiente, di provvedere alla cura, educazione e alimentazione dei figli, di riempire affettivamente il tempo vuoto di una persona in solitudine. Tutto questo è di una materialità essenziale.
L'investimento totale delle risorse emotive, cognitive e comunicative che comporta oggi il lavoro, come sottolinea l'autrice nell'ultimo capitolo, rende automaticamente inattuale e inadeguato il parametro su cui si fonda il sistema di retribuzione: il tempo come misura lineare appiattisce la profondità dell'investimento in termini di saperi e passioni poste in gioco nella produzione di valore nella misura in cui non c'è più distinzione tra tempo di lavoro e tempo di vita e "qualsiasi misurazione del tempo impiegato in lavoro retribuito attualmente esistente, fatica a essere precisa, poiché in nessun caso si tiene conto del tempo di lavoro degli immigrati irregolari, del lavoro nero e sommerso, né possono davvero essere misurate le prestazioni cognitive precarie. Un'idea, a differenza di una chiave inglese, non si riesce-anche volendo- ad abbandonarla in un posto preciso per poi riprenderla la mattina dopo. Essa può inseguirti nei luoghi e nei tempi più disparati della tua vita." (cfr. p.105)
Quando il lavoro si converte in servizio salta ogni possibilità di misurazione, di quantificazione della produttività perché salta ogni discrimine tra produzione e riproduzione, tra lavoro e vita appunto. La femminilizzazione del lavoro, quindi, segna la crisi del sistema salariale e con esso la fine di quel complesso di garanzie che aveva nel salario familiare il suo cardine, crisi legata anche all'incompiuto welfare fordista italiano, che ancora oggi vincola, le donne al lavoro domestico e alla cura.
In questa prospettiva la rivendicazione del reddito di cittadinanza diventa strumento comune in grado di scardinare da un lato il dispositivo famiglia come nodo di regolazione e controllo sociale e di intermediazione del riconoscimento dei diritti sociali; dall'altro il persistere della forma-salario come vettore di precarietà, declinare il reddito da un punto di vista di genere significa allora tener conto del lavoro non pagato delle donne e del suo divenire modello di tutto il lavoro.
++ Conversazione con Cristina Morini (Fahrenheit - Rai 3 - 13.8.2010)
++ Cristina Morini, Per amore o per forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo... leggi la recensione
A proposito del libro di Cristina Morini "Per amore o per forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo"
Sguardi e pratiche sul lavoro: Per un manifesto della precarietà
di Chiara Mellini - correntealternata.org
http://www.womenews.net/spip3/spip.php?article7444
Il lavoro di Morini, Per amore o per forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo con la preziosa introduzione di Judith Revel, pretende una lettura notturna, da effettuare tutta "d'un fiato" senza interruzioni o tanto meno tempi frammentati come i ritmi temporali che la vita di oggi ci "costringe" ad avere. Non si può infatti correre il rischio di non somatizzarne interamente il contenuto.
E' un manifesto l'opera di Morini, un manifesto di autodeterminazione, di consapevolezza, verso quel processo chiamato femminilizzazione del lavoro che negli ultimi anni ha trasformato i nostri tempi di vita in elementi di profitto e le nostre capacità e aspettative personali in fattori del capitalismo neo liberale.
Come le linee d'ombra e le zone oscure dei movimenti delle donne che Morini investiga, vi sono nel suo lavoro ambiziose letture di un universo, che lei stessa definisce difficile da interpretare, perché in costante mutazione. In alcuni passaggi, Morini offre una visione di superficie che sembra voler colmare i vuoti di una riflessione femminista sul lavoro, oggi.
Il pensiero dicotomico, oppositivo e di contrapposizione, di cui il sistema occidentale è composto, viene analizzato da Morini in relazione al patriarcato e al capitalismo, come elementi fondativi di un processo di femminilizzazione del lavoro. Dall'ingresso delle donne nei contesti professionali retribuiti allo sfruttamento di modalità oblative e di cura, si é arrivate alla precarizzazione delle esistenze, processo che ha investito sia donne che uomini, non senza evidenti sproporzioni nelle conseguenze quanto nella matrice di genere.
Nei cinque capitoli che lo compongono, l'autrice ci porta a osservare tutti gli aspetti, le forme oscure e gli elementi del nostro stare nel lavoro oggi.
Patriarcato, femminilizzazione del lavoro e pensiero della differenza vengono scarnificati, offrendoci significati e collocazioni diverse al loro abituale e consolidato uso.
Suddiviso in cinque aree distinte che tentiamo qui di sintetizzare in territori interni agli individui e nuovi confini del lavoro, si apre con una riflessione sull'individuo nel lavoro che cambia.
La razza precaria di cui ci parla Morini punta il dito sul pensiero di contrasto e antitetico, terreno fertile per il dilagante capitalismo che ingloba dentro di sé, tutto: corpi, menti, pensieri e desideri.
Ed è nella "separazione dogmatica tra differenza di genere e condizione lavorativa" che si sono costruiti i sistemi sociali rigidi in cui non possono essere accolte le sfumature e le complessità degli individui e, sottolineo qui, soprattutto quelle delle donne.
Il soggetto precario che muta, si re-inventa ed è perennemente diverso da se stesso[[1]Morini cita Braidotti R. (1995), Soggetto Nomade, Donzelli editore, Roma.] e non trova spazio nelle categorie prestabilite, porta alla creazione di ciò che Morini chiama "un nuovo meticciato".
E se è vero che il concetto di transizione rappresenta perfettamente la condizione mutevole e di dinamismo obbligato del soggetto di oggi, tale transizione, tale nomadismo non attraversa a mio avviso indistintamente tutte le condizioni e tutte le posizioni sociali.
Se il lavoro è diventato precario al di là del genere (maschile e femminile) e al di là delle tipologie di lavoro (è precaria un'operaia quanto una segreteria che lavora in un Ente pubblico), non è altrettanto vero che lo è diventato indifferentemente per tutte le posizioni sociali.
Per quanto il fenomeno del lavoro precario sia immenso e diffuso, esistono sostanziali differenze che vanno dalla retribuzione economica, al nome stesso del lavoro. Per cui un contratto di apprendistato o di stage maschera, a seconda del contesto in cui viene attivato, richieste di adattamento a orari, compiti e capacità di investimento personale simili, ma con ricadute nella vita privata e di crescita professionale delle persone, molto diverse fra loro che necessitano a mio avviso, di essere osservate, conosciute e analizzate a fondo, perché produttrici di ingiustizie sociali, di opportunità non sempre legate al merito, ma fondate sulle cooptazioni parentelari come nelle semplici influenze personali.
Nel secondo capitolo Morini affronta l'ambito del lavoro cognitivo attraverso un'indagine nel contesto delle professioni giornalistiche che apre lo sguardo sulla rilevante caratteristica dello status di precarietà: ovvero la peculiarità del lavoro costruita sulla base di contrattazioni individuali.
Ed è sempre in tale ambito che si esplica l'interesse del capitalismo cognitivo per il soggetto: ovvero la capacità del singolo di mettere sé stess* nel proprio lavoro.
Morini ci evidenzia come, da una parte "il paradigma produttivo punti alla standardizzazione delle conoscenze" con lo scopo di trasferirle e monetizzarle in altri contesti del profitto. Dall'altra inglobi al suo interno "connotati emozionali ed esperienziali unici" per cui il soggetto con la sua storia e suoi vissuti diventa merce di scambio e allo stesso tempo contenuto del proprio lavoro.
L'home office o la domestication rendono il luogo delle professioni uno spazio aperto e anch'esso mutevole, dove i confini fra le attività di lavoro retribuito e le relazioni sociali sembrano continuamente dissolversi.
Ed è in questo processo di assimilazione che Morini affronta nel terzo capitolo il tema del corpo sul lavoro e lo fa riprendendo le parole di Urlick Beck sul "lavoro che si femminilizza" dove la precarietà diventa terreno occupazionale per gli uomini tanto quanto per le donne.
Con estrema crudezza Morini ci accompagna nel territorio dell'essere e dell'apparire, in cui il soggetto che lavora fa del proprio corpo un biglietto da visita oltre che bandiera di efficenza e capacità estrema di adattamento, nel tentativo di andare oltre i propri limiti di età o le proprie fisiologiche necessità.
L'aspirazione e l'apporto emozionale che ognuna offre alla dimensione del lavoro viene letta da Morini attraverso le parole del filosofo e antropologo Georges Bataille che nel suo libro sul paradosso dell'eccedenza, (ovvero che al massimo dell'esuberanza produttiva corrisponda il massimo della perdita) definisce con il termine la parte maledetta "l'eccesso di desiderio che deve essere sacrificato per consentire lo sviluppo dell'economia".
Un desiderio senza tempo e offerto in dismisura, come Morini ci parla nel suo quarto capitolo. Le potenzialità della Rete permettono il rimanere in costante collegamento, in continua relazione con l'esterno e gli altri, a patto di rinunciare quotidianamente ai tempi necessari della riflessione, del dubbio e del pensiero, che l'immediatezza comunicativa dei nuovi media non consente di mettere in atto.
La qualità del lavoro contemporaneo si misura nella deadline dei progetti che perseguita i precari cognitivi ben oltre le ore di impiego e in cui lavoro emozionale e di cura si fondano portando alla luce la necessità di un "aggiornamento lessicale/semantico che tenga conto dello scivolamento di senso portato con sé dai cambiamenti della società e dei modi di produrre".
La definizione dei lavori atipici sembra quanto mai attuale, inserita come è nell'esigenza di un riferimento normativo nazionale che proprio in questi giorni viene finemente smantellato da leggi come il Collegato Lavoro in cui la contrattazione individuale, oltre che costituire un debole strumento di rivendicazione dei propri diritti, fa del precariato la futura condizione del lavoro.
Nella proposta di istituire un "reddito di esistenza" come risposta all'imperante precarietà, Morini conferma l'urgenza delle sue riflessioni e la necessità per il femminismo contemporaneo di farsi portavoce "non tanto di un nuovo metro di misura del valore del lavoro", quanto di come inconsuete forme di distribuzione economica possano sopperire all'intermittenza delle professioni, all'imperante individualizzazione dell'ingresso e del permanere nel lavoro, "facilitando lo sviluppo della persona e del suo agire al di là di ciò che è funzionale alla produzione".
Il suo invito ad un agire collettivo, alla necessità di riappropriarsi di modalità e forme di rivendicazione comune fanno del suo libro un contributo essenziale allo svelamento e alla comprensione della precarizzazione del lavoro, oggi.
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