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Ai confini dell'umano
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Gli animali e la morte
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www.mangialibri.com
di Leonardo Caffo
Stanislaw Jerzy Lec, poeta e scrittore polacco, pensava che il primo sintomo della morte fosse la nascita. Aveva ragione? In un certo senso sì, come si dice il giusto se si afferma che nel momento in cui si inizia a percorrere un sentiero finito si è già pronti a terminarlo. Il naturale percorso dell'essere vivente tende alla morte tanto quanto un grave lasciato cadere da una torre tende verso il terreno, è quella che Aristotele avrebbe chiamato "causa finale". La cultura contemporanea è impegnata nel dominare l'irrazionalità ed in questa operazione domina se stessa e il suo più grande terrore: "la realtà esterna" che può essere riassunta con il termine di morte. Adorno spiegava questa negazione della morte da parte dell'uomo sociale come una negazione stessa del corpo e della nostra radice biologica più profonda: l'animalità. Attraverso la società dell'uomo razionale la morte perde la sua caratteristica di proprietà essenziale e sprofonda nella leggerezza della contingenza. Le critiche a questa visione "stereotipata" della morte sono, nella storia della filosofia e del pensiero in generale, continue e complesse, basti pensare ad Heidegger e alla sua visione della morte come la "possibilità della pura e semplice impossibilità dell'Esserci". Tutte queste critiche però, lo si nota immediatamente, sono impregnate dello stesso elemento che si vorrebbe criticare: l'antropocentrismo; per quanto si cerchi di reincorporare la morte nella dimensione dell'esistenza, infatti, questa esistenza rimane sempre esclusivamente umana e non ne trascende mai i suoi confini...?Un nuovo tentativo di percorre universalmente questo viaggio verso la morte è stato fatto da Massimo Filippi, filosofo e neuroscienziato da anni impegnato nella lotta culturale dell'antispecimo, nel suo ultimo libro Ai confini dell'umano. Massimo Filippi diventa, per il lettore, il cocchiere di due carri, quello dell'accalappiacani e quello dei cani morti, due carri che attraversano trasversalmente tutti gli scritti di Adorno e che attraversano noi stessi inducendoci la domanda: siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i cani? Il sentiero attraverso cui ci guida l'autore e che ci porterà a capire come i due carri siano in realtà lo stesso carro visto da due lati diversi, è un sentiero che profuma di animalismo ma con un odore completamente nuovo, passando per l'antispecismo analitico di prima generazione, osservando quello continentale di seconda e interiorizzando la riflessione fenomenologica acamporiana che sancisce il passaggio dalla "carne del mondo" al "mondo della carne". La riflessione animalista che emerge dal testo è completamente nuova ma forte delle basi del passato antispecista, superando la necessità di inglobare antropologicamente le capacità animali nelle nostre e tralasciando riflessioni profonde ma inconcludenti; l'animale diviene, adesso, l'intermediario dell'umano metafisico e la sua presunta "povertà di mondo" non è semplice mancanza, ma assenza che si da come paradossale ricchezza in quanto dischiude la possibilità della comunicazione, contrapposta all'auto - dialogare dell'uomo attraverso la sua filosofia metafonica. Il concetto di sfruttamento inteso nella sua globalità è analizzato, ancora una volta, attravero Adorno che aveva individuato come ogni cattiveria umana, nella sua apparente diversità, è invece unificata dallo stesso uso di linguaggio. L'immersione nell'in - umano attraverso cui ci guida Massimo Filippi è un percorso complesso, attraverso il dialogo con la filosofia, la letteratura e le neuroscienze, si figura il vero oggetto del nostro parlare: noi stessi intesi non più come "Gli animali" ma come "animali tra gli animali", pronti a accettare quell'altro che si figura in mille modi ma che è esemplificato dolcemente dal finire di tutte le cose, la morte, propietà necessaria e non contingente.
Liberazione - 25 marzo 2010
Gli animali, la morte e noi
di Filippo Trasatti
Forse è brutto a dirsi, ma circolano troppi libri sugli animali, libri che quotidiana- mente contribuiscono a consolidare la nostra immagine di specie predatoria e dominante rispetto a tutto il resto del mondo non umano visto, quando va bene, con curiosità o un afflato romantico per una "natura" ormai perduta. Rari sono invece i libri che si propongono di sviluppare non un pensiero "sugli animali", che li trasformi in oggetti buoni da mangiare o da idealizzare, ma che, a partire da essi, tenti di oltrepassare la nostra comune e ordinaria prospettiva antropocentrica. "Ai confini dell'umano. Gli animali e la morte" di Massimo Filippi, recentemente pubblicato da Ombre corte, è uno di questi. Qualcuno ha detto che l'esperienza del viaggio è il tema più profondo ed essenziale della letteratura occidentale fin dalla sua fondazione omerica. E questo libro ci propone proprio di intraprendere un viaggio. Un viaggio insolito sia per quelli che da animalisti si impegnano quotidianamente nella lotta per la liberazione animale, sia per quelli che, adagiati su un tetto troppo comodo, non si avvedono che nei bassifondi tutto brucia. Un viaggio che, come tutti i veri viaggi non solo ci allontana da ciò che è conosciuto, ma che ci invita anche ad avventurarci in veri e propri passaggi di soglia, a un'esperienza della morte, a una discesa nell'Ade e a una successiva, difficile quanto necessaria, risalita. E come in ogni viaggio che si rispetti anche qui si incontrano ostacoli, prove, Scilla e Cariddi (filosofi analitici e continentali), insieme ad intercessori e aiutanti - in questo caso filosofi frequentati e amati, come Adorno e Derrida, nonché storie e personaggi che fanno pensare.
Ciò che muove questo viaggio è la cognizione del dolore e un profondo con-sentire che la sofferenza del mondo non è né giusta né tollerabile. Se, come sosteneva Adorno, "la misura della filosofia è proprio la profondità con cui si accerta del dolore", la riflessione filosofica è ancora più necessaria se prende parola nel paesaggio in cui ci troviamo a vivere, paesaggio caratterizzato da un silenzio assordante, se dà voce a quelli che non l'hanno, o l'hanno troppo fievole o ai quali sono state tagliate le corde vocali proprio per celare la loro irredimibile sofferenza. Qui parla un mondo che il sistema biocapitalistico di sfruttamento del vivente e dei suoi cicli rapina irreparabilmente, producendo centinaia di migliaia di morti di homini sapientes per fame e guerre e miliardi di vittime animali nei mattatoi. Eppure proseguiamo allegramente come se nulla fosse, tappandoci le orecchie e gli occhi per non sentire e non vedere.
È perché nasca e fiorisca un pensiero radicale della liberazione che Massimo Filippi ci invita a lasciare che gli inciampi del nostro linguaggio, profondamente intriso di antropocentrismo, ci risveglino a un'altra consapevolezza; a ridare la parola a quelli che non l'hanno, ad ascoltarli, a lasciarsi toccare in profondità dalle loro storie e dal loro respiro.
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Orgoglioso di questa intervista, davvero
Intervista a Massimo Filippi
di Leonardo Caffo
Occhiali rossi e All Star slacciate, area da ragazzino. Massimo Filippi ha mille facce sovrapposte e solo un occhio attento può osservarle e capirle tutte. Neuoroscienziato del S. Raffaele di Milano, esperto delle moderne tecniche di neuroimaging, professore universitario e filosofo attento alle tematiche etiche riguardanti umani ma soprattutto animali. L'ho incontrato presso l'Università di Milano, e ho parlato con lui di animali, di morte, di Filosofia.
Partiamo dall'inizio. Il titolo del tuo libro Ai confini dell'umano - Gli animali e la morte mette in relazione cose che, per un lettore inesperto, appaiono molto distanti: umano, animali e morte. Puoi spiegarci in breve il motivo di questa scelta?
Il libro, come recita il titolo, rappresenta un tentativo di riconsiderare i confini dell'umano. Poiché tradizionalmente l'umano è sempre stato declinato come ciò che sorge dopo che gli animali e la morte sono stati esclusi o negati, ecco che la relazione tra i tre termini non dovrebbe più apparire eccessivamente esoterica. A ben pensarci, infatti, gli animali e la morte stabiliscono quelli che sono i sono i consolidati confini spaziali (gli animali) e temporali (la morte) dell'umano, i quali nel momento stesso in cui vengono posti sono subito revocati: in tutti i racconti cosmogonici - o, almeno, in quelli "occidentali" - l'umano è ciò che è radicalmente non-animale e quindi di fatto immortale. Dal che discende che il modo in cui definiamo l'animale e la morte determina immediatamente ciò che pensiamo essere l'umano. Detto altrimenti, quello che qui si tenta di fare è tutt'altro che un semplice esercizio accademico perché l'esclusione degli animali e della morte dall'umano non sono mai state operazioni innocenti; è sotto gli occhi di tutti il fallimento della nostra cultura basata su tale operazione: la morte rimossa ritorna come morte istituzionalizzata, come nuda vita, così come l'animale rimosso ritorna come bestialità della società umana.
La tradizione animalista in filosofia ha già prodotto numerosi testi. Perché il tuo dovrebbe contribuire ad ampliare, non solo quantitativamente, ma anche concettualmente questo filone?
In parte per i motivi detti poc'anzi. L'antispecismo "classico" - quello di Peter Singer e Tom Regan, per semplificare e per capirci - pensava di ridefinire l'animale senza toccare lo statuto dell'umano, operando così in una sorta di vacuum ontologico e politico, forse responsabile della sua scarsa "presa" sia a livello filosofico che a livello di opinione pubblica generale. In altri termini, l'antispecismo "classico" accettava di fatto le premesse della metafisica occidentale e si impegnava a ricercare tracce umanoidi (psichiche/cognitive) in (almeno) alcuni animali per farli entrare nel cerchio della considerazione morale. In questa prospettiva l'animale resta una sorta di umanoide incompiuto. Qui si cerca invece di spostare l'enfasi dalla somiglianza alla differenza, iniziando a rintracciare un percorso nuovo per individuare che cosa ci condivide prima di ogni possibile divisione. E ciò che ci condivide, pur lasciandoci differenti, è la vulnerabilità corporea e la mortalità.
Che cos'è l'antispecismo? E, nello specifico, cosa vuol dire vivere da antispecisti?
Per definire cosa sia l'antispecismo, dobbiamo prima definire cosa si intende per specismo. Specismo è un termine coniato a metà degli anni '70 del secolo scorso e sta ad indicare un pensiero e un atteggiamento pratico tali per cui gli interessi degli individui della propria specie - anche i più futili e non necessari - prevalgono sempre e comunque su quelli di individui di altre specie, compresi quelli più fondamentali, quali l'interesse a vivere, a non soffrire e alla libertà. L'evidenza empirica ormai non lascia più margine al dubbio sul fatto che gli animali abbiano degli interessi e siano in grado di provare piacere e dolore; il nostro pensiero, pertanto, non può che rimodellarsi sulla base di tali acquisizioni che, da Darwin in poi, sono venute costituendosi come una massa tale da essere difficilmente ignorabile. Solo per fare un esempio ogni anno circa 50 miliardi di animali non umani - senza contare quelli di piccola taglia, tipo conigli e molti pesci che sono venduti a tonnellaggio - passano per il sistema "allevamento intensivo - mattatoio" dove, dopo una vita miserabile caratterizzata da sofferenze inaudite, vengono letteralmente fatti a pezzi per questioni di gusto. E a ben pensarci l'alimentazione è solo una parte del problema: l'intera nostra società si fonda teoricamente e materialmente sulla sofferenza e sulla morte degli animali, dal modo in cui ci vestiamo a quello in cui facciamo ricerca scientifica. Vivere da antispecisti allora vuol dire aver ben chiaro che esiste una violenza "naturale", cu cui possiamo ben poco, e una violenza istituzionalizzata, che invece dobbiamo rigettare. Vivere da antispecisti significa, da un lato, optare per una vita che si impegni ad eliminare dal mondo quanta più sofferenza possibile, diventando vegani e rifiutando ogni prodotto di derivazione animale e, dall'altro, far chiarezza sul fatto, come si alludeva in precedenza, che oppressione animale e oppressione umana sono inestricabilmente correlate e che, quindi, non è possibile pensare di passare da presunzioni gerarchiche a favore di presunzioni ugualitarie senza considerare l'animale, pena la ricaduta in qualche altra forma di illibertà e di sfruttamento.
Nel tuo libro parli di due diverse tradizioni filosofiche che fanno da sfondo alla questione animale: quella analitica e quella continentale. Che differenze ci sono, puoi spiegarcelo in breve?
Nella modernità, la "questione animale" - ossia, come si diceva in precedenza, l'abuso sistematico e istituzionalizzato dei corpi degli animali in proporzioni quantitative inaudite e con un livello di sofferenza neppure lontanamente concepibile - è stata riportata alla luce e alla considerazione della filosofia da parte di autori anglosassoni di stampo analitico. Questi autori hanno offerto una nutrita serie di proposte etico-politiche a favore del miglioramento della condizione animale, senza però prospettare una via d'uscita dalla dicotomia occidentale tra spirituale e corporeo ossia, come si diceva, ritenevano di poter inserire gli animali nella sfera della considerazione morale senza mettere in questione lo statuto dell'umano. Al contrario, la "grande" tradizione filosofica continentale, da Platone a Heidegger, pensa di poter parlare dell'umano "fingendo" che l'animale non esista o che esista solo come referente negativo sul quale l'umano si costituisce dopo averlo dismesso. Esistono, però, autori continentali che si smarcano da questa prospettiva (penso soprattutto a Nietzsche, Adorno, Derrida e Deleuze) che, affrontando radicalmente il senso dell'opposizione umano/non umano, forniscono solide basi per una "riabilitazione" dell'animalità che investa nel profondo anche ciò che si dice "umano". Purtroppo, però, quest'altra linea di pensiero sembra dimenticarsi del dolore presente, non offrendo così proposte etico-politiche alla "questione animale" o, nel momento in cui lo fa, queste sono così "deboli" da essere prive di conseguenze pratiche o addirittura contraddittorie rispetto alla precedente decostruzione dell'antropocentrismo. Uno degli aspetti di questo libro, forse uno dei più importanti, è proprio quello di cercare di far dialogare queste due tradizioni di pensiero, cercando da un lato di "fondare" l'animalismo su solide basi filosofiche senza togliergli, dall'altra, il suo "mordente" sociale.
Ho individuato alcune parole chiave nel tuo libro, ad esempio, "inumano", "sacro", "aporia", "linguaggio". Puoi mostrarci brevemente come questi termini apparentemente lontani siano in realtà connessi tra loro?
Le parole chiave da te individuate sono in effetti le parole chiave del libro, ne costituiscono l'innervatura, lo scheletro e il tessuto connettivo. Proprio per questo è difficile mostrare come siano tra loro interconnesse: se davvero dovessi farlo dovrei riscrivere tutto il libro. Ma, in questo caso, non potrei essere breve! Proverò un'altra strada, forse, un po' oscura, ma spero suggestiva per sollecitare alla lettura del saggio. "In-umano" è un modo di avvicinarsi e concepire l'umano senza rigettarlo, un modo, come scrivo, per cominciare a pensare ad un racconto più benigno dell'umano. In-umano significa provare ad intessere un discorso intorno all'umano - quindi non un altro discorso dell'uomo sull'uomo - che riconosca che non esiste un proprio dell'umano, che questo è preceduto, attraversato e sopravanzato, dal mostruosamente Altro, da ciò che tradizionalmente abbiamo considerato come il più improprio: gli animali e la morte, appunto. Se l'umano è letteralmente "parassitato" e "contagiato" dal non umano, si apre lo spazio di pensabilità per un nuovo concetto di "sacro", dove ciò che conta non è più solo ed esclusivamente la nostra vita dal concepimento alla morte "naturale, il tutto a spese della vita degli altri, ma piuttosto la sacralità di quel piano di immanenza, che genericamente chiamiamo "vita" e che, forse, dovrebbe essere declinato come "con-fine", con-finitezza e con-finitudine - un modo più benigno per dire "confine". Un sacro quindi che, riconosciuta l'inestricabile "ragnatela" del "tra" delle vite, non si fondi più sul sacrificio ma piuttosto su un sostare paziente e pacificato. E qui interviene il termine "aporia" che è l'accettazione dell'impossibilità del nostro pensiero di risolvere tutte le contraddizioni che, necessariamente, richiama quello di "perire", che non significa solo "morire", ma anche "per-ire", in questo senso, "per-ire" è illuminante nello stesso modo in cui lo è la luce, che rende possibile la visione, restando essa stessa impercettibile - ossia girare intorno, sostando in un luogo, luogo dove si cammina, si passa e si tra-passa. Credo che a questo punto ci sia poco da aggiungere sulla parola chiave "linguaggio". Il nostro linguaggio è formato dallo specismo, intriso di specismo e retroagisce sul nostro modo di pensare radicalizzando l'esclusione dell'animale: non a caso il linguaggio ha spesso costituito quel confine insuperabile che abbiamo posto tra noi e il resto del vivente, non a caso esso si è spesso dato come una forma laica di immortalità. Da qui la difficoltà di affrontare i temi di cui abbiamo discusso con il linguaggio che abbiamo a disposizione, da qui la necessità di trovare "inciampi" nel linguaggio che gli facciano restituire la voce animale e mortale che esso tenta di occultare ma che è ancora lì presente e aspetta di essere riportata alla luce.
Cosa ti auspichi in futuro per gli animali ...e per gli umani?
Certamente mi auspico per entrambi un futuro liberato, privo di oppressione, sfruttamento e violenza istituzionalizzata. Ma non chiedermi di più, non chiedermi, come direbbe Montale, "la parola che squadri da ogni lato". Seguendo, infatti i pensatori della Scuola di Francoforte, poiché la liberazione deve essere realizzata nell'ambito del processo storico da parte di soggetti intrecciati alla dissoluzione della società di cui essi stessi sono parte, non è possibile fornire orientamenti concreti per l'azione sociale. Come afferma Horkheimer: "Si può dire che cos'è male nella società data, ma è impossibile dire quale sarebbe [...] il bene, si può solo lavorare perché il male infine scompaia". Il che non è poi molto diverso da quanto sostiene anche Günther Anders: "Liberarsi dell'infelicità che può essere eliminata è più urgente della discussione sulla felicità". Anzi, a ben vedere, "la discussione sulla felicità" è la modalità con cui l'esistente, distogliendo l'attenzione dall'"infelicità che può essere eliminata", perpetua l'oppressione. Per dirla con Bloch, è nell'oscurità dell'istante vissuto che la funzione utopica, negando ciò che è, apre il cammino a ciò che può essere, sfuggendo all'immobilità del presente.
Un'ultima domanda. Personale ma in fondo connessa al tema fondante del tuo libro. Che rapporto hai tu con la morte? La dedica iniziale del tuo libro è commovente e misteriosa… ci sveli qualcosa?
Derrida afferma che all'animale non tanto abbiamo negato la facoltà di parlare quanto la possibilità di risponderci. E ciò che caratterizza la possibilità di rispondere è che questa preveda sempre la possibilità della non risposta, la possibilità di sottrarsi alla domanda: se dovessimo rispondere sempre, infatti, non risponderemmo nel senso di "rispondere a" e di "rispondere di", ma avremmo a che fare con degli automatismi. Ecco, mi piace concludere questa intervista non rispondendo alla prima delle due ultime domande e lasciando almeno parzialmente intatto il mistero della dedica. Posso solo dirti che si tratta di un cane femmina che ho incontrato per caso, dopo che verosimilmente era stata abbandonata, un agosto di tanti anni fa che ho amato profondamente, con la quale ho condiviso un lungo tratto della mia vita e che è morta, insegnandomi molto, nei mesi in cui stavo scrivendo questo saggio. Spero con questo di non aver svelato troppo il mistero di questa dedica, perché svelare i misteri, non esitare là dove gli angeli lo farebbero, è parte di proprio di quella hybris umana da cui qui si vorrebbe prender congedo.
Il manifesto - 12 luglio 2011
Quella falsa separatezza fra la nostra e le altre specie
di Felice Cimatti
Il problema dell'animalismo è che la questione dell'animalità, in realtà, non riguarda gli animali. O meglio, non riguarda solo gli animali (non umani). In effetti il limite di molto animalismo è quello di credere che ci si possa occupare del benessere animale senza occuparsi anche di quello degli animali umani. C'è un'unica logica che lega gli orrori del mattatoio con quelli dello sfruttamento dei lavoratori, dell'espropriazione dei beni comuni, della trasformazione della stessa vita umana in merce.
Per questo, come scrive Leonardo Caffo in Soltanto per loro. Un manifesto per l'animalità attraverso la politica e la filosofia (Aracne, pp. 136, euro 9), "dev'essere chiaro fin da subito che essere animalisti, in senso forte, significa fare una scelta politica". L'animalismo o sta dalla parte di un radicale cambiamento dell'assetto sociale esistente, oppure si condanna da solo all'irrilevanza. Finché l'unica logica ammessa è quella della valorizzazione del capitale, non sarà possibile salvare la pelle né di una mucca né di un minatore. Il problema non è quello di preoccuparsi di far morire in modo non troppo cruento un maiale (anche se è un problema urgente e importante), piuttosto quello di provare a immaginare un'organizzazione sociale non basata sullo sfruttamento e l'espropriazione della vita: "ciò che sembra necessario è rendere collettiva una scelta non violenta ma non lo si può fare sperando, 'semplicemente', che un giorno i supermercati sostituiscano al bancone di carne e formaggio rispettivamente quelli di seitan e tofu. Ciò che sembra necessario è mettere in discussione la struttura stessa del supermercato e dei sistemi affini che forniscono una presunta libertà di scegliere fra ciò che è già stato scelto a monte".
Per salvare il pollo occorre capire come funziona l'economia politica, prima ancora che provare a stabilire se un pollo ha o no una vita mentale. Anche perché, è ancora Caffo a metterci in guardia, altrimenti è forte il rischio di cadere nell'antropomorfismo, un rischio in cui anche molti animalisti continuano a cadere. È, per esempio, uno strano modo di amare gli animali quello di chi dice del proprio cane (quale stranezza, essere padroni di una vita) che gli manca solo la parola: cioè che quel cane è da amare non perché è un cane, bensì perché è quasi un uomo.
La questione dell'animalismo è pertanto quella di una politica e di una filosofia che pongano al centro dell'attenzione il "diritto alla vita, all'espressione, alla morte" dei viventi. A partire, come ci ricorda Darwin, dalla infinita diversità delle forme di vita. Qui è da segnalare il libro di Massimo Filippi, Ai confini dell'umano. Gli animali e la morte (ombre corte, pp. 95, euro 10), che affronta il tema della "macchina antropologica", cioè dell'operazione mediante la quale la filosofia (come la religione) ribadisce la separatezza dell'umano rispetto all'animale. Una separatezza che arriva, con Heidegger, a sostenere che gli animali, in realtà, non muoiono, perché possono solo decedere, mentre la morte è una prerogativa esclusivamente umana. Ma che significa che gli animali non muoiono? Che l'umano è comunque qualcosa di radicalmente diverso dal resto dei viventi. Ora, già nell'assurdità stessa di parlare dell'animale al singolare, dell'animalità in generale, è implicita una separatezza che tanto più è falsa tanto più sempre di nuovo deve essere ribadita.
Filippi ricostruisce l'apparato concettuale che permette questa operazione, non per mostrare che l'umano non è altro che un animale (mossa speculare a quella dello specismo separatista), ma per mettere l'umano fra gli altri animali. E mette in evidenza il paradosso dell'antispecismo, che nella fretta di parificare l'animale all'umano continua a "ignorare il verso dell'animale, la cui morte ha reso possibile il diritto dell'uomo". Non si possono difendere i diritti animali a partire da quelli umani, dato che questi esistono solo in quanto basati sull'esclusione dell'animalità (l'uomo è ciò che non è animale).
Una base comune per ripensare la questione animale può essere, allora, proprio quella della mortalità che accomuna i viventi: "questa 'possibilità dell'impossibilità' accomuna umani e animali non perché essi muoiono allo stesso modo (che cosa può significare una frase del genere?), ma perché entrambi com-patiscono, sostano pazienti in un'esposizione senza garanzie". A dispetto di Heidegger muoiono umani e virus, e tutti gli altri viventi. Non c'è un unico modo di vivere, come non c'è un solo modo di morire: "passare il confine della morte significa passare il confine tra noi e l'animale, distendere le maglie del 'paradigma confine' fino a trasgredirlo, fino a violarne la natura di proprietà privata, trasformandolo in territorio".
E così di nuovo torniamo al tema politico dell'animalità, quello di una vita non mercificata. Al centro di questo progetto c'è, di nuovo e ancora, il corpo, che "è l'eminentemente vulnerabile che condividiamo con tutto il vivente"; quel vivente che "è proprio l'accettazione di tale vulnerabilità che pervade l'esperienza affettiva, potenzialmente compassionevole, ospitante e cordiale verso gli altri corpi".
La questione dell'animalità, pertanto, "costituisce l'impensato della nostra civilizzazione", come scrivono Massimo Filippi e Filippo Trasatti nell'introduzione alla raccolta di saggi L'albergo di Adamo. Gli animali, la questione animale e la filosofia (Mimesis, pp. 317, euro 22): lo sfruttamento dell'animale è il paradigma e il modello di quello umano (al proposito si rilegga il tremendo libro di Charles Patterson, Un'eterna Treblinka. Il massacro degli animali e l'Olocausto, Editori Riuniti, in cui si mostra come la burocrazia nazista si ispirò ai mattatoi per organizzare lo sterminio di milioni di esseri umani).
Fra i numerosi e interessanti saggi di questo libro, che si può leggere come prima approssimazione a quegli animal studies ancora poco noti in Italia, segnaliamo quello di Marco Maurizi, che affronta il difficile tema del rapporto fra marxismo e mondo della natura. Che posto assegnare, agli animali, in una società senza classi? "L'animale, sia esso ridotto a merce o asservito come mezzo di produzione, è un ingranaggio della società di classe che aspetta, come altri, la propria ridefinizione in una società socialista". La liberazione dell'animale non potrà avvenire senza una parallela liberazione dell'umano, "perché ciò che di essenziale la sua domesticazione ha prodotto per noi non è la carne di manzo o l'avorio, ma il dominio che attraverso questi si esercita sull'uomo. L'assoggettamento dell'animale non rientra nella storia della libertà dell'uomo ma in quella della sua stessa schiavitù".
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