Alessandra Sciurba
Campi di forza
Percorsi confinati di migranti in Europa
 
Materiali foucoultiani
http://www.materialifoucaultiani.org/en/intro-pub/94-alessandra-sciurba-campi-di-forza-1.html
di Alessia Nuzzachi

Il libro di Alessandra Sciurba, così come i concetti di "campi di forza" e di "percorsi confinati" che ci propone per interpretare la realtà dei migranti in Europa, nascono da un connubio strettissimo fra riflessione storico-teorica ed esperienza concreta sul campo. In questo modo i luoghi e le storie di vita dei migranti con cui Sciurba entra in contatto, fra le quali quelle di Abdalla, Alì, Rahim, Fortune, Babajan che ci vengono presentate nell'ultimo capitolo del libro, possono essere interpretate alla luce degli strumenti teorici precedentemente acquisiti, non senza che queste abbiano contribuito a formare e a modificare tale bagaglio teorico e concettuale.
Dal punto di vista teorico, infatti, Sciurba ripercorre in modo chiaro le trasformazioni che hanno accompagnato storicamente le parole chiave di cittadinanza, confinamento, stato nazionale e diritti universali, e i rapporti intercorrenti fra esse. Attraverso un'analisi che si sviluppa a partire dalla Rivoluzione francese per arrivare fino ad oggi, Sciurba mostra come il gesto di porre confini, gesto potenzialmente plurivalente, sia stato storicamente interpretato evidenziandone non l'aspetto relazionale e inclusivo, ma quello strettamente delimitante ed escludente. Ciò che, nello specifico, è messo bene in evidenza è la complessa ragnatela di questi confinamenti, il legame cioè fra confinamento del territorio (dello stato nazionale) e confinamento della cittadinanza; il legame fra questi due e il confinamento della mobilità che, come è facile intuire, è ciò che mette in crisi l'unità ricercata e ottenuta attraverso il confinamento del territorio e della cittadinanza; infine come l'unione di questi diversi confinamenti si sia costantemente tradotta anche nel confinamento fisico di diverse categorie di soggetti che sono rimasti al di là dei confini tracciati.
Già a partire dal periodo successivo alla Rivoluzione francese, infatti, la cittadinanza assume i confini dello stato nazionale, l'uomo si "riduce" a cittadino e i diritti umani a quelli del cittadino dello stato nazionale ("aporia della territorializzazione dell'universale"), mentre contemporaneamente lo straniero diventa il non-cittadino e vittima di quel nuovo razzismo che Foucault individua come "razzismo di stato"[1], fondamentale nella costruzione dei nazionalismi.
Dall'unione fra confinamento della cittadinanza e confinamento del territorio, il quale assume confini stabiliti secondo una modalità identitaria ed esclusiva di individuazione e riconoscimento dei legittimi abitanti del suolo statale, il territorio si va definendo in termini oppositivi sia verso l'esterno che verso l'interno, dando il via a processi di deportazione o internamento su base etnica, mentre la sovranità sul territorio (controllo dei confini) diventa sovranità sulla mobilità degli individui e divisione degli individui all'interno della società in "normali" (cittadini pienamente detentori dei diritti sanciti) e "anormali" (individui passibili in ogni momento di internamento amministrativo, cioè individui che forniscono un appiglio per una certa pratica di gestione della residualità). All'interno di questo stretto legame fra stato moderno e controllo della mobilità, la libertà di movimento si trasforma da diritto universalmente garantito in prerogativa del pieno esercizio della cittadinanza nazionale con la conseguenza che, nel momento stesso in cui si inventa un'immigrazione legale, ne viene creata anche una illegale assieme alla figura del clandestino. La distinzione fra cittadini e stranieri si complica e assume la fisionomia di una distinzione fra cittadini, stranieri legali e stranieri illegali, ancora oggi gravida di conseguenze.
Dopo aver mostrato come anche nella nuova realtà dell'Unione Europea il confinamento del territorio, della cittadinanza e della mobilità seguano la via della rigida opposizione fra cittadini e non-cittadini, in continuità con lo schema già nazionale, Sciurba evidenzia come, ad oggi, la strategia di governo adottata dall'Unione Europea non sia tanto rivolta alla difesa dei confini esterni tout court, quanto ad una inclusione differenziale e finalizzata dei soggetti migranti all'interno dei confini europei, strategia che trova le sue ragioni non solo nello sfruttamento economico, ma anche in istanze di ordine sociale, politico e simbolico connesse, appunto, alla presenza dei migranti.

[1] M. Foucault, Corso del 17 marzo 1976, in Bisogna difendere la società, Milano, Feltrinelli 2009.




L'Altro - 23 luglio 2009

Cartografia dell'orrore umano

Il libro di Alessandra Sciurba analizza delocalizzazione, geografia e politica dei centri di detenzione per migranti
di Anna Simone

Era il 1998 quando un gruppo di sociologi genovesi e milanesi poneva per la prima volta pubblicamente il problema della nascita di vere e proprie gabbie prossime a contenere centinaia di migranti senza permesso di soggiorno. L'iniziativa di protesta si svolse dinanzi a Via Corelli, una strada milanese diventata famosa proprio a causa dell'allora Cpt (ora si chiamano Cie, Centri di identificazione e di espulsione) e fece il giro di tutti i centri sociali, i movimenti studenteschi, la sinistra tutta. Per la prima volta si denunciava il grande imbroglio "umanitario" che sottendeva la dicitura "centri di accoglienza" che, nostro malgrado, i mezzi di comunicazione di massa hanno continuato impropriamente ad usare sino a qualche anno fa, forse per proseguire sulla grande strada del "rimosso" collettivo rispetto alle migrazioni del XX secolo. Per la prima volta in Italia l'accoglienza dei migranti senza permesso diventava detenzione attraverso la legge Turco-Napolitano. Da allora in poi nacque un grande movimento che dopo aver attraversato le strade di Genova è riuscito ad essere forte ed incisivo per diversi anni, prima attraverso il Tavolo migranti dei Social Forum e il Gruppo monitoraggio Cpt, poi attraverso gruppi di azione e di elaborazione culturale e politica senza i quali oggi non avremmo informazione alcuna sulle continue trasformazioni in atto di una cartografia dell'orrore sempre più massiccia e imperante. Una cartografia della detenzione amministrativa dei migranti che, al di là del caso italiano, sembra mappare l'intero territorio dell'Ue e dei suoi spazi di "sconfinamento". Con quest'ultimo termine Alessandra Sciurba, una giovane e brava ricercatrice palermitana che di questa storia fa parte, in qualità di redattrice del famoso sito Melting Pot, ha definito nel suo primo libro appena edito da Ombre Corte (Campi di forza. Percorsi confinati di migranti in Europa, con una prefazione di F. Sossi, pp. 245, euro 23), il cosiddetto processo di "esternalizzazione" dei centri di detenzione e delle zone di concentramento costruiti, con i soldi dell'Italia e dell'Ue, presso tutte le zone da cui solitamente provengono i migranti: Libia, Turchia, Algeria, Ucraina etc, meglio noti come "paesi terzi sicuri". Una sorta di pre-confine territoriale, uno sconfinamento, appunto, pensato ad hoc per "confinare" le migrazioni contemporanee in modo tale da impedire loro di raggiungere lo spazio designato dall'Ue. Esistono dei confini nazionali e sovranazionali definiti e delimitati, con un proprio ordinamento giuridico, come direbbe Kelsen, ma esistono anche dei confini mobili, non dichiarati ufficialmente eppure sanciti da accordi bilaterali, da famosi accordi di "amicizia" postcoloniale -come quelli siglati con il mitico colonnello Gheddafi-, da direttive sovranazionali. Questi non potendo fare riferimento al diritto internazionale e nazionale utilizzano la detenzione amministrativa come istituto giuridico di riferimento. E poi esistono dei confini tra gli stessi confini dei singoli stati-nazionali. Trattasi comunque e in ogni caso di luoghi, spazi chiusi, delimitati da grate, fili spinati, presso cui nessuno può entrare se non i parlamentari, ove si detengono i migranti privi di permesso di soggiorno. La tesi portante del libro, che si lascia leggere con passione per la chiarezza espositiva con la quale una mole enorme di materiale socio-giuridico, empirico e politico viene finalmente resa accessibile attraverso una metodologia di lavoro storica e chiara, è semplice: i confini dell'Ue si spostano a seconda di come si sposta la mobilità dei migranti. Pur non essendo una tesi del tutto nuova Alessandra Sciurba riesce, alla fine, a rendere comunque unica la lettura del fenomeno tremendo da lei analizzato perché, a differenza di altri testi sull'argomento (pochi, a dire il vero) un po' troppo prigionieri di un cotè retorico, ideologico e disincarnato, sposta molti luoghi comuni. Per esempio il suo sforzo di ricostruzione storica della cittadinanza e dello stesso concetto in relazione ai diritti umani come matrice primaria di esclusione dello straniero, le sue indagini storiche per capire come nasce il potere delle burocrazie statuali e quindi anche i primi "permessi di soggiorno" -siamo attorno alla fine dell'ottocento in Francia-, nonché i primi passaporti ci consentono di uscire dalla dicotomia diritti di cittadinanza/diritti umani, dallo stesso formalismo giuridico, per analizzare invece il fenomeno del "grande internamento" ben costruito da Foucault in "Sorvegliare e punire". La detenzione amministrativa dei migranti o il semplice contenimento in zone specifiche e temporanee è, infatti, un dispositivo che nasce storicamente in epoca coloniale e dopo, solo dopo, viene utilizzato anche dal terzo Reich e dai regimi comunisti. La tensione emotiva dell'autrice si percepisce in ogni pagina del libro eppure il suo desiderio-bisogno di europeizzare la ricerca -bellissime le pagine sullo studio di caso "Malta" con il suo enorme campo di forza reso leggibile grazie ad una sua permanenza sull'isola della detenzione- viene continuamente stemperato dalla volontà di "dire la verità", di considerare la ricerca come un qualcosa di non sganciabile dalla militanza per fare di essa un esercizio molto amato da Foucault, l'esercizio della parresia. Dire la verità, appunto, incarnare la ricerca, intrecciare la storia con le storie dei singoli migranti che lei intervista un po' ovunque, financo nella civilissima Parigi dove lo spazio di confinamento diventa un "giardinetto" di un arrondissement, rende il libro a suo modo unico rispetto ad altri testi costruiti sul tema. Un altro nodo importante che si mette a punto in questo lavoro, nonostante l'uso di molti autori spesso tutti in contrasto tra loro, è lo spostamento paradigmatico che lei compie dalla generica e abusata nozione di "forma campo" di cui ci ha parlato Agamben in Homo Sacer, intesa come forma di uno "stato d'eccezione permanente" in cui si inscrivono le politiche del presente, alla nozione più specifica di "campo di forza". Oltre la "forma campo", che probabilmente si è fermata assieme ai regimi totalitari del XX secolo (i campi nazisti tanto quanto i Gulag) oggi esistono i "centri di detenzione" e le "zone di concentramento", campi di forza. Campi in cui si esercita la forza del potere su uomini, donne e bambini per "gestire" le migrazioni come fossero un insieme di pedine su una scacchiera che travalica gli stessi suoi confini. Confini che, sempre con la forza, si istituiscono per confinare l'altro, il perturbante. Campi che non ci parlano più dello stato d'eccezione come forma della politica che li sottende, ma di una sorta di democrazia autoritaria che ha "normalizzato" quelle pratiche facendole proprie con i migranti. Non un'eccezione, quindi, ma la norma. Una tesi del tutto condivisibile, così come è del tutto condivisibile l'analisi critica che l'autrice compie nei confronti di tutti i goffi tentativi messi a punto per tentare un'umanizzazione, anch'essa forzata, di questi campi e centri. Come è possibile, infatti, umanizzare il disumano se attorno a questi spazi della detenzione si gioca un business economico ipocrita al punto tale da costruire financo dei veri e propri dispositivi di "vittimizzazione" coatta dell'altro? I campi in Libia finanziati dalla legge 271 voluta all'epoca da Pisanu, dove si consumano le peggiori mostruosità sui corpi dei migranti, non sono altro che una merce di scambio sancita dagli accordi bilaterali. L'Italia concede al colonnello innumerevoli privilegi economici e il colonnello detiene ammassati nei campi milioni di "africani che vengono dalle foreste" -come lui stesso li ha spregevolmente definiti durante la sua visita in Italia- . Corpi-scambio all'interno di un controllo biopolitico della popolazione e della sua mobilità su scala transnazionale. Accordi voluti da D'Alema, tanto quanto da Berlusconi. Una cartografia dell'orrore, insomma, sulla quale si spendono ancora troppe poche parole. Eppure sulla detenzione amministrativa si sta giocando una delle più grosse partite del potere tesa ad oltrepassare le garanzie minime previste dal diritto penale e non solo su scala nazionale, ma anche e soprattutto su scala sovranazionale. Una ragione in più, insomma, per non indignarsi solo dinanzi agli innumerevoli pacchetti sicurezza sanciti dal Belpaese, ma per vedere questi ultimi all'interno di un disegno più generale che produce un'umanità di scarto sempre più consistente, una geografia della paura in cui il limite tra umano e disumano diventa sempre più rilevante. Un mondo che salva un'umanità già salva e uccide un'umanità già sommersa dagli stessi salvati.



il manifesto - 2 settembre 2009

Le frontiere mobili del controllo sociale. Le mappe dei migranti. Una ricerca sul campo
di Enrica Rigo

La spettacolarizzazione dei confini, della detenzione e della deportazione dei migranti, produce un rovesciamento nell'ordine del discorso sul quale poggiano le norme giuridiche. Da un lato, essa assolve alla funzione di giustificare l'apparato securitario dispiegato nelle politiche di controllo e selezione delle migrazioni; dall'altro, lo alimenta, riproducendone continuamente gli attori e i copioni. Per dirla con Michel Foucault, tra le pratiche sociali in grado di definire soggettività artificiali (come nel caso dei migranti «clandestini» e, quindi, «criminali») quelle giuridiche e amministrative danno origine a dispositivi di «verità» che si organizzano attorno alle norme, per cui il comportamento dei soggetti non rileva più in quanto tale, ma solo per la sua conformità alle disposizioni di legge o alle procedure degli apparati amministrativi (dove l'«umanitario» si sostituisce spesso al diritto). Può essere sintetizzata in questo modo una delle tesi attorno alle quali la giovane ricercatrice Alessandra Sciurba costruisce la sua analisi in Campi di forza (con la prefazione di Federica Sossi). Una sintesi che non rende giustizia dell'ampiezza delle argomentazioni e della letteratura alla quale l'autrice fa riferimento; ma è certo da una «cassetta degli attrezzi» foucaultiana che il libro attinge la sua principale impostazione metodologica. Si tratta di un'operazione che trae forza da un'accurata ricerca empirica condotta in alcune zone chiave per il controllo dei confini in Europa: Lampedusa, Patrasso, Sangatte e i giardinetti del X arrondissement di Parigi, Malta, la Slovenia, il Marocco. Non solo ai «margini» del territorio europeo, ma anche nel cuore delle sue metropoli, ci si trova dunque di fronte a «forme di campi» che uniscono con un filo rosso i centri di detenzione per migranti in attesa di espulsione alle «zone di concentramento» dove i migranti aspettano di attraversare la frontiera: quella che da Patrasso li porterà nei porti italiani, quella che prolungando l'attraversamento della Manica ne fa coincidere la partenza con i giardinetti di Parigi, o quella che unisce Africa e Europa attraverso i «percorsi confinati» di Ceuta, Mellilla, Malta o Lampedusa. E sarebbe sufficiente richiamare le numerose rivolte scoppiate nelle ultime settimane nei centri di identificazione e espulsione italiani (Cie) - e innescate dal prolungamento della detenzione stabilito dal pacchetto sicurezza - per mostrare come il tentativo di spoliazione della soggettività e di disciplinamento dei migranti, messo in opera attraverso questi dispositivi, non conduca affatto a esiti scontati. Pur riconoscendo l'importanza di analisi teoriche come quelle di Hannah Arendt o Giorgio Agamben, Sciurba è attenta a non rappresentare l'esistenza dei migranti - neppure quando viene relegata nelle zone di sospensione dell'ordinamento giuridico - come «nuda vita», come vita «spoliticizzata».
Sono proprio le strategie autonome dei migranti a ridefinire i centri di detenzione e le zone di confinamento come dei «campi di forza» nei quali i percorsi obbligati per raggiungere l'Europa vengono continuamente contestati e rinegoziati. Ed è la dinamicità di questi luoghi, che diversamente da altra letteratura sul tema Sciurba individua come loro caratteristica, uno dei punti di forza della ricerca. Esemplificativa è la storia del centro di Sangatte, sorto come punto di raccolta «umanitario» per nascondere la presenza dei migranti alla frontiera e chiuso tre anni dopo a causa della troppa attenzione mediatica, con la conseguenza che il punto di raccolta dei migranti che intendono attraversare la Manica si è spostato nel centro di Parigi. Ma sono soprattutto le funzioni non dichiarate dei centri per la detenzione dei migranti a determinarne la dinamicità. Certamente luoghi del controllo poliziesco e biopolitico sui migranti in ingresso e in uscita dal territorio; ma anche dispositivi economici funzionali al controllo della manodopera migrante; e ancora - come mette in luce l'autrice - luoghi divenuti ormai oggetto di relazioni geopolitiche tra gli Stati. Lo mostrano bene i negoziati preliminari all'allargamento a est dell'Europa, che hanno finanziato la costruzione dei centri nei paesi candidati; ma ce lo ricorda anche la cronaca dei respingimenti verso la Libia che, dietro lo spettacolo della detenzione e delle deportazioni ai confini Italiani, fa delle vite dei migranti oggetto di scambio delle relazioni internazionali. Se si ricercano le ragioni di interesse di questo libro nella cronaca, tragica e ormai quotidiana, del razzismo istituzionale messo in campo nel controllo dei confini in Italia e in Europa, i riferimenti sono sicuramente abbondanti. Sarebbe tuttavia un errore considerare il tema della ricerca di Sciurba come un tema legato solo alla contingenza dell'attualità politica, destinato a divenire demodé non appena l'impero del diritto si sarà imposto illuminando anche le residue zone di oscurità dello spazio giuridico globale. La ricostruzione genealogica che l'autrice presenta dei confinamenti del presente e del passato, la loro fondamentale relazione con la costruzione della cittadinanza moderna, ci dicono come non si tratti affatto di un residuo di violenza statuale destinato a essere superato, ma ci parlano piuttosto delle trasfigurazioni della sovranità. Delle sue trasformazioni, certo; ma anche delle sue continuità. Ed è sicuramente una nota di merito che, infrangendo qualche barriera disciplinare, sempre più spesso le migrazioni stiano diventando oggetto di attenzione anche della filosofia e della teoria politico-giuridica. Ben venga quindi l'inattualità del tema. Con l'auspicio che a renderlo tale sia il sovvertimento dell'ordine presente.






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