A. Fumagalli, S. Mezzadra (a cura)
Crisi dell'economia globale
Mercati finanziari, lotte sociali e nuovi scenari politici
 
L'altro - 13 giugno 2009

Recensione
di Girolamo de Michele

Nei primi mesi di quest'anno c'è stato, sulle pagine della rivista dalemiana Italianieuropei, un dotto dibattito a distanza sulla crisi tra Giulio Tremonti (n. 1/2009) e Giuliano Amato (n. 2/2009). Detto senza ironia: un confronto interessante, che va letto come lo specchio dell'attuale classe dirigente a fronte della crisi globale. E se Tremonti fa appello al francescano Luca Pacioli per invocare il ritorno alla regolamentazione contabile della finanza, Amato si chiede come mai nessuno di quanti un tempo parlavano a nome di Marx abbia sottolineato la scomparsa del valore in favore del prezzo. Non è chiaro a chi si riferisca Amato: ma se il presidente della Fondazione Italianieuropei è in cerca di qualche marxista ancora capace di essere tale, e cioè di esercitare una serrata critica dell'economia politica, può cominciare dal volume collettivo Crisi dell'economia globale, curato da Sandro Mezzadra e Andrea Fumagalli (pp. 240, € 20), che inaugura per i tipi di Ombre Corte una collana legata a quell'avventura dell'intelligenza collettiva che è Uninomade, rete di ricercatori, accademici, studenti e attivisti di movimento che dal 2004 cerca di realizzare una connessione delle intelligenze critiche espresse dai movimenti di questi anni. L'insieme di questi contributi vede alternarsi, oltre ai due curatori, Carlo Vercellone, Christian Marazzi, Stefano Lucarelli, Federico Chicchi, Tiziana Terranova, Bernard Paulré e Karl Heinz Roth; un testo collettivo - Nulla sarà come prima. Dieci tesi sulla crisi finanziaria - e una postfazione di Toni Negri chiudono il volume. Letto il quale, non sembrano esservi dubbi sulla sostanziale inutilità della disputa tra chi vede la sola finanza come causa (e oggetto della cura) di improvvide storture, e chi allarga l'orizzonte all'economia, evocando nuove Bretton Woods sottese da rinnovati processi di governance. E non c'è bisogno dell'ultimo Rampini per capire che per effetto di questa crisi non solo alcune cose, ma nulla, come recitano le tesi collettive del volume, rimarrà immutato. A cominciare, ci auguriamo, dal metodo d'analisi della crisi, dal quale ne dipende la comprensione delle cause, la descrizione degli effetti, la possibilità di operarvi all'interno per invertirne la tendenza. Gli autori di questo volume sono accomunati da una doppia militanza, politica prima ancora che intellettuale: la tradizione post-operaista e l'ipotesi di ricerca del capitalismo cognitivo. Dalla prima traggono l'approccio improntato a privilegiare la tendenza, piuttosto che le manifestazioni empiriche, della crisi; la ricostruzione dei processi a partire dai conflitti che li hanno generati; e un approccio tutt'altro che "obiettivo" o super partes: la crisi viene studiata dal punto di vista degli oppressi, delle moltitudini in lotta, di quei soggetti che Roth propone di chiamare "multiverso in continua trasformazione della classe operaia globale", con uno slittamento non solo semantico che evidenzia l'approccio globale alla crisi. Crisi che non è una disfunzione o un incidente nel capitalismo di lungo periodo, dal momento che "il capitale è crisi": la novità sta piuttosto nella natura del capitalismo attuale, capace di valorizzare non solo la merce "fisica", materiale, ma anche quella merce immateriale che è la conoscenza. Conoscenza che si traduce in capitale cognitivo - basterà pensare all'immediata traducibilità delle acquisizioni cognitive nel campo dell'informatica, delle comunicazioni, delle chimiche di sintesi. Con una fondamentale differenza rispetto alla classica forza lavoro che veniva ceduta da (o meglio, espropriata a) l'operaio fordista in cambio del salario: il capitale intellettuale ceduto nello scambio salariale viene acquisito dal compratore senza essere perduto dal suo produttore. È una differenza importante, perché non solo rende archeologico il dibattito sulla "contraddizione fondamentale" capitale-lavoro, ma pone il problema dell'incapacità del capitale di controllare la valorizzazione cognitiva (ne è un esempio il tentativo di irregimentare la creazione attraverso nuove regole su brevetti e copyright): e il capitalismo non è solo profitto, ma anche controllo sociale. Incrociando questi due approcci, la crisi in atto emerge come la risultante di diverse forze strutturali. In primo luogo, l'eredità del lungo ciclo 1973-2006, innescato da una crisi mondiale causata dalle lotte operaie e sociali, e usata come arma per reprimere queste rivendicazioni, innescate dall'espansione negli anni Sessanta, attraverso il Welfare State, di istruzione, conoscenza, scienza sociale; le modificazioni, in termini di nuove forme di sfruttamento, dei rapporti sociali realizzate nel orso di questo ciclo sono oggi alla base della crisi, e senza fare i conti con quelle non si fanno i conti con questa. In secondo luogo, la crisi attuale è la conseguenza non occasionale del "divenire rendita del profitto". La ricchezza è stata prodotta in misura crescente non attraverso investimenti nel campo della produzione e della creazione di nuova forza lavoro, ma da nuove forme di rendita finanziaria che hanno garantito aumenti dei guadagni, parassitando la ricchezza sociale. Fanno parte di queste forme di rendita non solo quelle borsistiche, ma anche quelle politiche di accaparramento che, rendendo scarsi i beni disponibili, permettono la crescita del loro valore in termini di rendita (ad esempio il mercato immobiliare o il mercato dei beni agroalimentari). Ma non si tratta di contrapporre il profitto "virtuoso" alla rendita "succhiasangue": si tratta piuttosto di svelare (come aveva capito Marx nel terzo libro del Capitale) che il profitto ha in sé un'intrinseca tendenza a trasformasi in rendita, perché è esso stesso parassitario rispetto alla ricchezza prodotta nella società. E ancora, dalla lezione che il capitale è uno stato di crisi permanente bisogna trarre l'ammonimento a non pensare che da questa crisi si possa uscire attraverso un crollo generale e catastrofico del capitale, costi quel che costi: il capitale nella crisi potrebbe permanere per secoli, e dalla crisi trarre quella capacità di controllo sociale che le politiche di Welfare e di governance non sono più in grado di garantire. I riformismi di basso profilo che oggi si dividono la scena tra maggioranza e opposizione parlamentari, così lontani dalle altezze di un Keynes oggi necessarie, sembrano da questa prospettiva destinati al fallimento in ragione della totale inadeguatezza dei loro approcci e dei loro metodi. Si tratta allora di pensare, all'interno della crisi globale, a forme sociali che, liberate dal mito delle "virtù progressive del capitalismo", siano in grado di costruire nuove forme di lotta su terreno quali reddito di cittadinanza, salario sociale, Welfare, conoscenza, nella costruzione di un terreno comune che riconosca le nuove contraddizioni sociali (dalla questione migrante a quella di genere) per reinventare la libertà, l'uguaglianza, la solidarietà nella dimensione comune.



il manifesti/Alias - 11 aprile 2009

Perché Keynes non serve più


di Giorgio Lunghini

Scrive Marx, nel "Frammento sulle macchine" dei Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica (1857-58, trad. it. La Nuova Italia, 1968-70):
"Le forze produttive e le relazioni sociali - entrambi lati diversi dello sviluppo dell'individuo sociale - figurano per il capitale solo come mezzi, e sono per esso solo mezzi per produrre sulla sua base limitata. Ma in realtà essi sono le condizioni per far saltare in aria questa base. La natura non costruisce macchine, non costruisce locomotive, ferrovie, telegrafi elettrici, filatoi automatici ecc. Essi sono prodotti dell'industria umana: materiale naturale, trasformato in organi della volontà umana sulla natura o della sua esplicazione nella natura. Sono organi del cervello umano creati dalla mano umana: capacità scientifica oggettivata. Lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo vitale stesso sono passate sotto il controllo del general intellect, e rimodellate in conformità a esso. […] Il capitale diminuisce il tempo di lavoro nella forma del tempo di lavoro necessario, per accrescerlo nella forma del tempo di lavoro superfluo; facendo quindi del tempo di lavoro superfluo - in misura crescente - la condizione (question de vie et de mort) di quello necessario. Da un lato esso evoca, quindi, tutte le forze della scienza e della natura, come della combinazione sociale e delle relazioni sociali, al fine di rendere la creazione della ricchezza (relativamente) indipendente dal tempo di lavoro impiegato in essa. Dall'altro lato esso intende misurare le gigantesche forze sociali così create alla stregua del tempo di lavoro, e imprigionarle nei limiti che sono necessari per conservare come valore il valore già creato".
Questo noto passo dei Grundrisse è stato molto letto e discusso dalla sinistra italiana, quando c'era, in una prospettiva immediatamente politica. Negli anni recenti, una sua rilettura da parte di studiosi giovani e teoricamente ben attrezzati ha dato l'avvio a uno dei filoni più interessanti del pensiero economico eterodosso: un filone di pensiero che merita attenzione, visto dove ci ha portato il pensiero economico ortodosso. Benvenuto dunque questo libro: Crisi dell'economia globale, a cura di A. Fumagalli e S. Mezzadra, Ombre corte, Verona 2009, pp. 240, Euro 20,00). Per un economista di una certa età, la lettura è talvolta faticosa per via del lessico: capitalismo cognitivo, capitalismo biopolitico ecc., mentre il tema è ancora quello del rapporto tra capitale e lavoro salariato, è il tema caro agli economisti classici (Smith e Ricardo sopra tutti) e alla critica marxiana. Tuttavia le categorie analitiche non sono costruzioni ad hoc, come invece sono spesso quelle della teoria ortodossa, e si rivelano efficaci nell'analisi della crisi in atto, nella prefigurazione delle sue possibili conseguenze politiche, e nell'indicazione di possibili vie d'uscita.
Gli stessi autori dei dieci capitoli del libro, lo riassumono in dieci tesi: 1. L'attuale crisi finanziaria è crisi dell'intero sistema capitalistico. 2. L'attuale crisi finanziaria è crisi di misura della valorizzazione capitalistica. 3. La crisi è l'orizzonte di sviluppo del capitalismo cognitivo. 4. La crisi finanziaria è crisi del controllo biopolitico: è crisi di governance e dimostra la strutturale instabilità sistemica. 5. La crisi finanziaria è crisi dell'unilateralismo e momento di riequilibrio dal punto di vista geopolitico. 6. La crisi finanziaria mostra intere le difficoltà del processo di costruzione economica dell'Unione europea. 7. La crisi finanziaria segna la crisi delle teorie neoliberiste. 8. La crisi finanziaria evidenzia due principali contraddizioni interne al capitalismo cognitivo: l'inadeguatezza delle tradizionali forme di remunerazione del lavoro e l'infamia della struttura proprietaria. 9. La crisi finanziaria attuale non può essere risolta con politiche riformiste che definiscano un nuovo new deal. 10. La crisi finanziaria attuale apre nuovi scenari di conflitto sociale.
Noto che nessuna di queste tesi evoca il marxismo ingenuo della inevitabilità del crollo, e che tutte sono convincenti. Due sono però di particolare interesse, la nona e la decima. Molti invocano oggi, come possibile soluzione della crisi attuale, un nuovo new deal. Perché quella esperienza è irripetibile? Perché gli strumenti detti 'keynesiani' erano disegnati per un'economia fordista (uso le virgolette perché Keynes non scommetteva sull'efficacia di politiche keynesiane: "Questa che io propongo è una teoria che spiega perché la produzione e l'occupazione siano così soggette a fluttuazioni: essa non offre una soluzione bella e pronta al problema di come evitare queste fluttuazioni e mantenere costantemente la produzione a livello ottimale").
La produzione fordista era una produzione di massa di beni di consumo durevoli standardizzati e destinati prevalentemente al mercato interno. Erano necessari grandi investimenti, con cospicui effetti moltiplicativi sul reddito e sull'occupazione. Era possibile, e necessaria, una spartizione tra capitale e lavoro salariato dei guadagni di produttività generati dalla organizzazione tayloristica del lavoro. Imprese, famiglie, governo, la società tutta, nel mondo fordista dovevano avere orizzonti temporali lunghi. Nel mondo della finanza, che è il sottoprodotto delle attività di un casinò, tutto ciò non è più possibile poiché ne manca la base materiale. Il moltiplicatore di una politica di spesa pubblica difficilmente sarà maggiore di uno. Né potrà essere molto efficace un intervento di stimolo indiretto, mediante una riduzione del tasso d'interesse: in una situazione di deflazione, la conseguenza più probabile è la trappola della liquidità, non l'aumento degli investimenti privati.
Circa il conflitto sociale, non c'è dubbio che prenderà forme nuove, e ce ne sono già dimostrazioni. La decima tesi si chiude così: " Il Re è nudo. Il percorso davanti a noi è arduo ma, tutto sommato, è già cominciato." Anche il Re sa di essere nudo, ma non credo che perciò diventerà pudico. Mi paiono più probabili esiti di tutt'altro segno.

P.S. Al lettore che legge, l'argomentazione di Marx riportata sopra ("Il capitale diminuisce il tempo di lavoro nella forma del tempo di lavoro necessario, per accrescerlo nella forma del tempo di lavoro superfluo") fa venire in mente il Diritto all'ozio di Lafargue (1887) e Le prospettive economiche per i nostri nipoti di Keynes (un saggio del 1930 pubblicato di recente da Adelphi come se fosse una novità, mentre in Italia era già stata pubblicato tra il 1968 e il 1991 dal Saggiatore, da Laterza, e da Bollati Boringhieri): "Tre ore di lavoro al giorno sono più che sufficienti per soddisfare il vecchio Adamo che è in ciascuno di noi. […] Renderemo onore a chi saprà insegnarci a cogliere l'ora e il giorno con virtù, alla gente meravigliosa capace di trarre un piacere diretto dalle cose, i gigli del campo che non seminano e non filano"". Circa il modo in cui viene davvero impiegato il lavoro 'superfluo', purtroppo hanno ragione Marx e gli autori di questo libro, non Keynes.






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