Marcela Iacub
L'Impero del ventre
Per un'altra storia della maternità
 
Il foglio - 26 ottobre 2005

"L'impero del ventre" secondo Marcela Iacub, molta teoria e poca vita


di Alessandra Di Pietro

Marcela Iacub è una giovane giurista francese di origine argentina, che si occupa di leggi sul corpo e ama prendere posizioni provocatorie, a sinistra, ma spesso polemiche verso il movimento femminista. In Italia è stato da poco tradotto il suo ultimo libro ("L'impero del ventre uscito", Ombre corte, 213 pagine, 17,50 euro) che molte polemiche ha suscitato in Francia. Il lavoro è una lunga e documentata invettiva contro le leggi d'oltralpe sulla filiazione, considerate fonte di ogni possibile discriminazione: tra maschi e femmine, eterosessuali e gay, ma soprattutto tra donne fertili e sterili, poiché l'intero sistema poggia sulla "verità biologica" del parto e ha scelto il "ventre materno" come propria pietra angolare. Scrive la Iacub: "Possiamo ammettere che vi sia qualcosa che dà le vertigini nel fatto di prendersi la responsabilità di mettere al mondo un figlio, ma credere che si possa limitare quest'atto affidandosi alla saggezza del corpo è ancora più irrazionale" che fare del matrimonio la cornice ideale di tutte le nascite, come prevedeva il Codice napoleonico. Le norme del 1804, "avevano il raro pregio di collocare le volontà umane al di sopra dei fatti naturali". E così, attraverso alcuni strumenti giuridici, davano ai coniugi un potere pressoché assoluto di far diventare effettivo membro della famiglia un figlio che non era nato dalla madre e neanche dal padre. La legge si accontentava della "presunzione" di verità, purché avvenisse con consenso all'interno del matrimonio.
"Ci viene detto che il Codice napoleonico introduceva gravi disuguaglianze tra uomini e donne", scrive ancora la Iacub, ma in verità tracciava una frontiera tra chi stava dentro e chi stava fuori dal matrimonio. E' vero che creava disparità tra nubili e sposate, poiché queste ultime perdevano le loro capacità civili e diventavano soggette al marito. Ma, in compenso, "sulla procreazione le parti di invertivano". Le mogli potevano legare a sé bambini che non avevano partorito e anche imporre al marito figli che egli non aveva concepito, giocando sulle numerose restrizioni a cui era sottoposto il disconoscimento di paternità. Le nubili dovevano generare per diventare madri e in certe circostanze era loro imposta la maternità senza che avessero potere sul padre, ma gli abbandoni e i parti segreti permettevano che l'evento fosse "cancellato".
Oggi, invece, le leggi conferiscono alle donne una sovranità assoluta sulla procreazione ma questo potere insindacabile sulla vita e sulla morte (con l'aborto), considerato un emporwerment da parte del movimento femminista, secondo la Iacub genera un'asimmetria pericolosa tra i genitori. In Francia un uomo è considerato padre biologico di un figlio non suo, concepito con sperma eterologo, mentre per le femmine la maternità biologica è comunque legata al parto. Il che, alla Iacub, appare come un'ingiustizia: le donne sono padrone del proprio utero solo entro i limiti stabiliti - a conferma che le leggi sulla procreazione sono il frutto di una concezione storicizzata della maternità - e non possono disporne liberamente, tant'è che è vietato affittarlo anche se al "nobile" scopo di "donare" il figlio a un'altra. Per la Iacub, la libertà di negoziare sul proprio ventre, di essere madre surrogata o di farvi ricorso, è diventata l'unica scappatoia da un sistema che, a suo avviso, discriminerebbe chi per natura o per ritardo non può più procreare. Perché, chiede la giurista (che si riferisce ovviamente alla legislazione francese), si possono cedere ovuli, sperma, embrioni ma non l'utero, neanche a titolo gratuito? Perché si può vendere il corpo per un qualsiasi lavoro ma dal concetto di lavoro si esclude quello della procreazione?
Le leggi bioetiche francesi del 1992 che hanno definitivamente vietato la maternità surrogata consacrano "una pericolosa eccezione uterina", avallata dalla parte del movimento femminista che ha definito la filiazione per interposta persona una "prostituzione". La terra promessa per la Iacub diventa allora la California, dove vendere l'utero è un impiego come un altro e dove, quando i giudici si sono trovati a sbrogliare processi dove fino a cinque madri e padri tra biologici, donatori e surrogati si accapigliavano, è stato elevato a criterio dirimente "l'intenzione" di concepire il figlio. Per la Iacub, dunque, è necessario fare della "volontà" il criterio fondatore di ogni filiazione per risolvere le discriminazioni causate dal sesso, dall'età e dalla "capricciosa" distribuzione della fertilità. La genitorialità diverrebbe così "un'opera" e non un processo del corpo.
Il brillante argomentare di Marcela Iacub è fatto di pura teoria di manifesta avversione a tutto ciò che è corpo e natura, e in questo denuncia un grande limite. Astrarsi dal dato biologico, addirittura contrapporsi a esso, è pericoloso tanto quanto porlo a unico fondamento dell'esistenza. Così come appare utopico pensare che le "transanzioni sul ventre" sarebbero pacifiche in un mondo che non è più quello regolato dal Codice napoleonico. Di Iacub ci interessano gli arguti paradossi e le analisi spregiudicate, ma non condividiamo gli esiti. La sfida che pone la tecnoscienza non può essere risolta (solo) con la sottrazione del corpo alle norme, ma con un ripresa del potere sul corpo, che proprio perché consapevole del suo limite rifiuta la finzione di un biologico ricreato a tutti i costi, che è poi il senso della maternità surrogata.


Liberazione - 5 gennaio 2006

Il ventre materno conteso da Chiesa e Stato


di Beatrice Busi

Con la modernità il ventre materno è diventato uno dei campi di competizione preferiti negli esercizi di biopotere di Stato e Chiesa, molto interessati al disciplinamento e al controllo di corpi e anime. Se, come ha suggerito Benedetto XVI, è vero che lo "sguardo benevolo e amoroso degli occhi di Dio" si posa sull'essere umano fin da quando è ancora informe nell'utero materno, è però indubbio che su quella "piccola realtà ovale e arrotolata" si sono già posati anche gli occhi del grande Leviatano, il "Dio mortale". L'inquietante consapevolezza delle donne di essere state oggetto di questo incrocio di sguardi indiscreti, viene accresciuta dagli interessanti testi di due storiche, Marina D'Amelia e Marcela Jacub. Due modi di fare la storia della maternità e della rappresentazione del materno molto diversi tra loro ma che insieme ci raccontano efficacemente come la Legge e il discorso pubblico convergano nello sforzo incessante di definire non solo regole, comportamenti e codici morali delle madri, ma anche nel giudicare e stabilire che cosa sia la maternità. Insomma se "Dio ci scruta e ci conosce", anche lo Stato fa piuttosto sul serio.
In Italia la storia delle donne si è occupata del tema molto proficuamente, producendo ricerche e studi importanti tra le quali La storia della maternità pubblicata nel 1997 e curata dalla stessa D'Amelia per Laterza e Madri. Storia di un ruolo sociale, un testo curato da Giovanna Fiume e pubblicato da Marsilio nel 1995. Già allora, dieci anni prima del referendum sulla procreazione medicalmente assistita e degli attacchi scomposti alla legge sull'interruzione di gravidanza, l'introduzione di Giovanna Fiume delineava i contorni della posta in gioco. "Attorno alla maternità si sta svolgendo, in questo scorcio di millennio, una dura battaglia che vede coinvolti molti e agguerriti combattenti. (…) Gerarchie ecclesiastiche, governi, scienziati, giuristi e magistrati, persino organismi internazionali, combattono, prima che per imporre il proprio punto di vista per orientare scelte demografiche, politiche sociali o altro, sul piano delle rappresentazioni culturali che, a ben guardare, fanno perno attorno alla delicata questione della riproduzione della specie. E, dunque, alle donne che biologicamente sono predisposte a tale compito".
Recentemente, Marina D'Amelia con il suo libro La mamma pubblicato da Laterza (pp. 331, euro 14,50), ci ha offerto un altro notevole contributo, dimostrando come non solo nel "maternalismo fascista" ma anche in età liberale la rappresentazione pubblica della maternità sia stata un'importante tecnologia discorsiva nella costruzione dell'identità nazionale. Infatti all'origine del "nation building" all'italiana emerge quella figura della "madre eroica e sacrificale" che avrà una lunga egemonia come rappresentazione idealtipica. D'Amelia ne descrive assestamenti e adeguamenti anche attraverso schizzi biografici e vissuti familiari di donne esemplari per la cultura e la società italiana, dal Risorgimento alla Resistenza: il ruolo pubblico delle "madri patriottiche" come Maria Mazzini Drago e Adelaide Cairoli, o lo scambio polemico di lettere tra Sibilla Aleramo e la fondatrice dell'Unione femminile Ersilia Majno sul libro Una donna, ma anche il ruolo dell'esaltazione della figura di Rosa Maltoni, "una donna all'antica", nella mitopoiesi fascista del Duce.
L'impero del ventre della storica e femminista francese Marcela Jacub, tradotto in Italia da Ombre corte (pp. 214, euro 17,50), ci riconduce invece all'azione direttamente intrusiva dello Stato nei legami genitoriali e il suggestivo titolo del libro si riferisce all'autoevidenza di cui pare dotato il giudizio di senso comune che la madre di un bambino sia colei che l'ha partorito. In realtà, sul piano giuridico si tratta di un'acquisizione recente e per imporla "è stato necessario ricorrere a mezzi estremi: sorvegliare le gravidanze, mettere in galera gli "impostori", proibire determinati accordi, strappare i bambini dalle mani degli usurpatori; in breve far capire che la questione biologica del parto è un vero e proprio affare di Stato".
Ripercorrendo i mutamenti del diritto francese dall'Ancien régime ai giorni nostri e ricostruendo lunghi e ingarbugliati processi che sono divenuti anche clamorose vicende di cronaca, Jacub ci mostra come il "voyeurismo giudiziario" abbia preso corpo in una vera e propria "polizia della maternità". Se il Codice napoleonico si basava sull'istituto del "possesso di stato" ed è stata la riforma francese del 1972 ad instaurare il cosiddetto "impero del ventre" fondato sul parto, il regime di verità che governa la legittimazione dei legami di filiazione è in continua ridefinizione e la sfida lanciata dalle nuove tecnologie riproduttive all'antico adagio "mater semper certa est" ha complicato di molto la questione. Ma uteri in affitto e contratti di gestazione, donazioni di ovuli e di sperma, fanno semplicemente da lente d'ingrandimento su un dato storico: la maternità lungi dall'essere una relazione naturale è una "costruzione giuridica come un'altra". Del resto, come sottolinea la studiosa francese, "il fascino del diritto sta nella sua capacità di mostrarci come ciò che ci sembra la cosa più evidente e personale poggi in realtà su impalcature istituzionali complesse, impalcature che è sempre possibile smontare e rimontare".
Il suggerimento suona attualissimo nel clima politico italiano e mette sull'avviso ad intraprendere battaglie limitandosi alla difesa di leggi dello Stato, più o meno laico che sia, soprattutto se in gioco c'è la libertà delle donne. La lezione che ci viene dalla storia è che il piano delle rappresentazioni simboliche e quello giuridico sono entrambi continuamente coinvolti nell'irregimentazione dei comportamenti sociali. Si tratta dunque di concentrare l'azione politica sulla potenza affermativa della cultura e dell'etica delle donne, sedimentate nei decenni ma sempre in continua interrogazione per non lasciarsi mai (sor) prendere dalle tecnologie del potere.



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