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Sociologia degli imperialismi e teoria delle classi sociali
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Jura Gentium - Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale
Recensione di Danilo Zolo
Il volume, curato e prefato da Adelino Zanini, presenta due lunghi saggi di Joseph Schumpeter, entrambi già editi in lingua italiana nel lontano 1972, per i tipi di Laterza. Il primo saggio venne pubblicato da Schumpeter nel 1918-19 con il titolo "Zur Soziologie der Imperialismen", mentre il secondo, "Die sozialen Klassen in ethnisch homogenen Milieu", apparve nel 1927. Entrambi furono ospitati dall'Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik. I due saggi sono stati per lungo tempo ignorati sia dai sociologi che dagli economisti, finché Paul M. Sweezy non ne ha curato nel 1951 una edizione inglese congiunta, Imperialism and Social Classes. La raccolta ha suscitato notevole interesse, confermando l'idea che Schumpeter aveva di questi suoi scritti, come fra i più importanti che egli avesse pubblicato. Dei due saggi, non c'è dubbio che è stato il primo ad essere oggetto di una discussione più ampia, sia perché strettamente legato a un tema di grande rilievo politico - il rapporto fra capitalismo e imperialismo -, sia per l'originalità dell'indagine socio-economica e il carattere oggettivamente provocatorio della tesi centrale sostenuta.
La tesi avanzata da Schumpeter in questo primo saggio è che il capitalismo è di per sé un sistema antimperialistico. In un regime di libero scambio, egli sostiene, è assente una classe sociale che possa essere interessata all'espansione aggressiva. La borghesia capitalistica è un ceto essenzialmente pacifico, per la semplice ragione che essa è interessata alla crescita economica, al commercio e agli affari, e non all'espansione territoriale, alla conquista militare e alla guerra. L'imperialismo è un residuo del passato, di classi dirigenti e caste militari ereditate da società precapitaliste o, al più, protocapitaliste, che hanno perseguito l'espansione per l'espansione, la lotta per la lotta, la vittoria per la vittoria, la supremazia per la supremazia.
L'imperialismo, dagli imperi antichi al colonialismo moderno, è sempre stato caratterizzato da un uso della violenza privo di scopi immediati e concreti, senza connessioni precise con interessi economici. L'imperialismo è stato l'espressione di pulsioni primitive, ataviche, recessive, profondamente irrazionali: la passione per la lotta, l'egoismo sfrenato, la sete dell'odio, il bisogno di autoglorificazione e di affermazione violenta di se stessi, l'istinto del dominio, l'ansia di dedizione a qualcosa di sovrapersonale, a una realtà in qualche modo di trascendente (cfr. p. 6). Basti pensare alla inaudita crudeltà delle stragi dei nemici praticate dagli imperi antichi, in particolare dall'impero mondiale assiro: gli "stranieri" erano prede di un cupo fanatismo, di un odio sanguinario che nessun vantaggio concreto poteva minimamente esaudire. Tutto questo, sostiene Schumpeter, è stato radicalmente superato - e per sempre - dall'avvento dell'economia capitalistica: per il capitalismo l'espansione violenta, "priva di oggetto" è, come tale, priva di senso. Il capitalismo è "per essenza" antibellicista e antimperialista.
Se è così, sostiene Schumpeter, è facile prevedere che l'impulso imperialistico a poco a poco scomparirà grazie all'espansione capitalistica, travolto da nuove esigenze vitali e da fattori concorrenziali che assorbiranno le energie degli individui. Non ci saranno più quegli eccessi di energia che si scaricavano nella guerra e nella conquista. Quella che un tempo era energia bellica si sarebbe ridotta ad energia lavorativa e la guerra sarebbe stata percepita come un perturbamento sgradevole, distruttivo e deviante. L'economia di mercato, in definitiva, avrebbe forgiato tipi umani caratterizzati da una disposizione non-bellicista, da una ostilità di principio nei confronti della guerra, degli armamenti, degli eserciti di mestiere (pp. 60-1). Non è un caso - conclude Schumpeter - che gli Stati Uniti d'America, il paese occidentale che meno risente di impulsi atavici, sia la potenza capitalistica più lontana da tentazioni imperialiste, la più favorevole al disarmo e all'arbitrato, sempre pronta a sottoscrivere trattati di limitazione degli armamenti (pp. 63-4).
A quasi un secolo di distanza dalla stesura di questo saggio di Schumpeter - scritto alla fine della prima guerra mondiale -, quello che si può dire è che si tratta di un testo tanto accurato, sofisticato e profondo nell'argomentare la propria tesi centrale - l'essenza pacifista del capitalismo - quanto contraddetto dai fatti. Da questo punto di vista Schumpeter non conferma la sua fama di economista-sociologo fra più acuti e profondi della prima metà del Novecento: una fama comunque largamente meritata, basti pensare al suo capolavoro Capitalism, Socialism, and Democracy. Quello che resta innegabile - come Schumpeter aveva previsto - è che il capitalismo si è espanso sempre più rapidamente sino a diventare un modello produttivo efficientissimo e senza concorrenti. Quello che oggi chiamiamo "globalizzazione" non è che il processo di espansione planetaria dell'economia di mercato sotto l'egida delle grandi potenze occidentali, in primis degli Stati Uniti d'America. Ma le guerre di aggressione non solo non sono scomparse, ma non si sono neppure ridotte di numero e anzi sono cresciute per dimensione e capacità distruttiva: sono diventate "guerre globali", assumendo persino le false vesti di "guerre umanitarie".
Schumpeter non è stato in grado di prevedere un'ampia serie di fattori che avrebbero contraddetto le sue previsioni pacifiste e non-imperialiste: la finanziarizzazione dell'economia di mercato, l'emergere delle grandi corporations internazionali, incluse le holdings dei produttori di armi di distruzione di massa, la divisione del mondo in un direttorio di paesi ricchi e potenti e in una grande maggioranza di paesi poveri e deboli, l'imponente riduzione delle risorse energetiche, l'emergere degli Stati Uniti come la sola, soverchiante potenza militare, impegnata a sottoporre il mondo intero alla sua strategia egemonica e a condizionarlo al suo benessere economico, assunto come una variabile indipendente. Il capitalismo si è rivelato, per sua essenza, non pacifista, ma al contrario bellicista e sanguinario. E gli Stati Uniti - secondo la lungimirante previsione di Carl Schmitt in Der Nomos der Erde - si sono rivelati come una potenza neo-imperiale legibus soluta, sempre pronta a usare la forza delle armi - e a praticare la tortura ai nemici prigionieri - per realizzare i propri progetti egemonici ed espansionistici. Il realismo politico schmittiano ha travolto l'ottimismo capitalistico schumpeteriano.
il manifesto - 26 marzo 2009
Terra Piatta
di Massimilano Guareschi
Nuova edizione per i saggi dell'economista austriaco Joseph A. Schumpeter sugli imperialismi e le classi sociali. Scritti per sostenere che lo sviluppo capitalistico avrebbe portato alla scomparsa delle politiche di potenza, sono testi che aiutano a una lettura critica di alcune tesi mainstream attuali che guardano ai conflitti tra gli stati nazionali come residuo antico di politiche nazionalistiche.
LE VIRTÙ DEL MERCATO CHE PORTANO LA CIVILTÀ TRA I POPOLI GUERRIERI
Ad Auguste Compte, in pieno Ottocento, la guerra appariva come un residuo del passato, destinato a scomparire con l'affermarsi della società degli scienziati e degli industriali. All'epoca dei sacerdoti e dei guerrieri, il ricorso all'atto bellico avrebbe avuto una chiara convenienza economica, in quanto rappresentava il metodo più redditizio per procurarsi beni e schiavi. Diversamente, per il profeta del positivismo, lo sviluppo della società industriale rendeva la guerra un inutile sperpero, in quanto il saldo fra i danni subiti e i vantaggi ottenuti era inevitabilmente negativo, anche in caso di vittoria. Il moto della storia, quindi, se la sarebbe inevitabilmente lasciata alle spalle, una volta ultimando un percorso che avrebbe condotto al governo degli scienziati e degli industriali e al tramonto di vecchie mentalità e superstizioni.
Oltre le frontiere
Un analogo ottimismo si sarebbe manifestato in seguito anche tra chi non faceva riferimento a visioni così grandiose o a una filosofia della storia dalla traiettoria lineare. Per esempio, Normann Angell, che nel 1910 pubblicava La grande illusione, un libro destinato a un clamoroso successo mondiale, e a un'altrettanto clamorosa smentita da parte dei fatti, nel quale si argomentava l'incompatibilità della guerra con un'economia improntata al libero mercato. In regime liberoscambista, il tracciato delle frontiere, il fatto che un territorio appartenga o meno a una determinata unità statale sarebbe infatti risultato insignificante, visto che in entrambi i casi ci si potrà approvvigionare dei suoi prodotti ed esportandovi in propri.
Molti dei temi a cui si è accennato emergono da Sociologia degli imperialismi, di Joseph Schumpeter, un testo pubblicato dall'economista austriaco nel 1918-1919 e riproposto recentemente da ombre corte in un volume dal titolo Sociologia degli imperialismi e teoria delle classi sociali (ombre corte, pp. 154, euro 18) a cura di Adelino Zanini.
Il saggio di Schumpeter è senza dubbio, al pari di Imperialismo fase suprema del capitalismo di Lenin e Imperialismo di Hobson, uno dei classici del dibattito sull'imperialismo. Allo stesso tempo, però, esso può essere assunto come riferimento per porre la questione del rapporto fra guerra ed economia, fra razionalità della decisione politica e logica dello sviluppo capitalistico. Lenin, impegnato a forzare la lettera, e la sostanza, di Marx per rendere conto del fatto che lo scontro interstatale sembrava assumere la centralità che avrebbe dovuto spettare al conflitto di classe, sviluppa l'ipotesi dell'immanenza della guerra ai rapporti di produzione capitalistici a un certo grado del loro sviluppo. Imperialismo come fase suprema del capitalismo, quindi, a partire dall'idea che i meccanismi inerenti la realizzazione (accesso ai mercati) e la capitalizzazione (acquisizione di materie prime) avrebbero condotto i vari capitali nazionali a un'inevitabile resa dei conti sul piano militare. Schumpeter, da parte sua, si muove in una prospettiva affatto diversa, secondo la quale l'imperialismo non può essere spiegato in termini economici. Ai suoi occhi, così come a quelli di Normann Angell, i meccanismi dell'economia di mercato e del libero scambio si opporrebbero alla guerra. Unica eccezione, in proposito, sarebbe rappresentata dall'«exportmonopolismo», ossia dalle pratiche aggressive, in termini di dumping ed esportazioni sottocosto, sviluppate da soggetti industriali dotati di posizioni monopolistiche in un dato paese. Schumpeter riprende qui le analisi di Rudolf Hilferding sul capitale monopolistico, ma con un significativi punto di dissenso. A suo parere, infatti, la tendenza al monopolio non è iscritta nella dinamica capitalistica ma deriva dall'intromissione di un fattore esogeno, ossia dalla politica, dalle scelte protezionistiche degli stati.
Se si esclude la possibilità di spiegare integralmente le tendenze aggressive degli stati sulla base di interessi concreti, si devono chiamare in causa meccanismi di diversa natura. Schumpeter è così spinto ad offrire una strana definizione di imperialismo, presentandolo in termini di «disposizione priva di oggetto» all'espansione da parte di un'unità politica. Priva di oggetto in quanto non riducibile integralmente a una logica economica ma correlata «all'espansione per l'espansione, la lotta per la lotta, la vittoria per la vittoria». A quel punto, l'economista cede così il passo all'etnologo o allo storico per intraprendere un itinerario lungo i sentieri della storia universale, dagli egizi agli arabi, volto a identificare le specificità dei diversi imperialismi che si sono succeduti nel corso dei millenni. Lo stile di vita di popoli non stanziali, per cui la razzia rappresenta una risorsa indispensabile, appare così il fondamento di un'etologia guerriera che pur diluendosi a contatto con le lusinghe della conquista non cessa di riemergere. La sua ultima manifestazione ci riporta alle vicende della modernità.
Lo stile perduto della guerra
Schumpeter si sofferma sullo stato del principe come cornice politica che avvolge di incrostazioni feudali e protezionismo le economie capitalistiche che si sviluppano al suo interno. Si disegna così un conflitto latente fra cosmpolitismo del capitale e nazionalismo della politica, fra interessi dei gruppi sociali più significativi, dalla classe operaia fino ai capitalisti e agli imprenditori nel loro complesso, per il gioco win to win del libero mercato, e mentalità aristocratiche e guerriere, residuo di epoche precedenti, che inerzialmente orientano le decisioni politiche in un'ottica precapitalistica. In tal senso, la storia appare in ritardo su se stessa, con le forme del passato che finiscono per gravare e sovradeterminare il presente. Schumpeter non mette in discussione che determinati schemi di rappresentazione e azione possano essere il riflesso di una struttura materiale, ma contesta che la loro diffusione declini in coincidenza con il venir meno delle condizioni che le avevano generate.
Per Schumpeter l'attitudine bellicosa degli stati sarebbe un retaggio dello stato autocratico e delle mentalità feudali, necessariamente destinato, si potrebbe aggiungere, traendo una conclusione implicita nel testo, a scomparire in forza della piena affermazione dei meccanismi dell'economia di mercato. Al di là della differenza di impianto concettuale, forti appaiono le assonanze, come sottolineato da Raymond Aron, con il discorso sulla guerra sviluppato da Compte. Le vicende del resto del Novecento non sembrano però avvalorare la disgnosi schumpeteriana. Quello che poteva valere per il Reich gugliemino, in termine di autorità degli Junker o di egemonia del prussianesimo, ben difficilmente poteva essere applicato alla mobilitazione totale della Germania hitleriana. Anche l'opzione teorica della neutralità politica dell'economia, che incontrò già le critiche di Carl Schmitt, appare oggi difficilmente sottoscrivibile. Ciò nonostante il testo di Schumpeter, con tutti i suoi limiti, continua a presentare un notevole interesse in quanto insiste, criticamente e provocatoriamente, su una relazione, quella fra guerra e interessi economici, facile da affermare, a livello di senso comune, ma ben più difficile da articolare in termini analitici.
L'IMPERIALISMO DI JOSEPH A. SCHUMPETER
di Benedetto Vecchi
Una prosa oscura per legittimare il libero mercato.
Un testo a tratti oscuro, criptico nei suoi bersagli polemici. Chiaro nel presentare le tesi di fondo attorno al ruolo dell'imperialismo e delle classi sociali nello sviluppo capitalistico. Tesi tuttavia candidamente ingenue nel rileggerle a oltre ottant'anni dalla loro prima pubblicazione. Joseph A. Shumpeter era un economista e raramente è uscito dal suo campo disciplinare e quando lo ha fatto, come in questi saggi o in Capitalismo, socialismo, democrazia, ha sempre dimostrato una certa propensione a definire programmi di lavoro «extraterritoriali» che dovevano comunque essere riversate nella teoria economica. Sta di fatto che questi scritti sull'imperialismo e sulle classi sociali da poco riproposti con una preziosa introduzione di Adelino Zanini, studioso che ha dedicato molta attenzione all'opera di Schumpeter, possono essere letti come come appunti di lavoro destinati ad essere sviluppati ulteriormente, sebbene questa loro incompiutezza metta in evidenza la tesi sviluppata grazie alla panoramica storica che l'autore proponeva per esemplificare il suo punto di vista.
In primo luogo, l'economista austriaco sostiene che non esiste un solo imperialismo, perché il termine va declinato rigidamente al plurale, dato che le caratteristiche in cui si presenta sono molteplici, anche se hanno alla base la «naturale» aggressività, sviluppata dagli umani affinché si creino condizioni ottimali per riprodursi come specie. Gli imperialismi maturano appunto quando un popolo dà libero «sfogo» a questa aggressività. Schumpeter è consapevole che le ragioni economiche hanno un certo peso, così come la dimensione religiosa o le identità nazionali o la difesa della «ragion di stato», ma solo solo variabile secondarie o motivazioni aggiuntive rispetto a quella principale. In una rapida carrellata Schumpeter passa infatti in rassegna tutte le forme di imperialismo che si sono succedute dagli Assisi fino ai giorni nostri, ma solo per cercare di smontare tutte le analisi fino ad allora avanzate sulle «politiche di potenza» nazionali e per sostenere che la diffusione del libero mercato su scala planetaria porterà all'abbandono del militarismo e della guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionale. Ed è in questo passaggio che emerge dalla nebbia di un linguaggio non sempre chiaro l'oggetto polemico della riflessione schumpeteriana.
Il saggio sugli imperialismo comincia infatti ad essere scritto dopo la pubblicazione del testo di Rudolf Hilferding sul «capitale finanziario» e, cosa più importante, quelli di Lenin sull'imperialismo e di Rosa Luxembourg sulla crisi dell'accumulazione capitalista. Tanto Hilferding che Lenin che Rosa Luxembourg non hanno dubbi: l'imperialismo di cui scrivono è espressione diretta del regime di accumulazione capitalistico. Ha ben poco affinità con la conquista di territorio da parte degli egizi o dei romani, né con una indefinita propensione «guerriera» di alcuni popoli. L'imperialismo a cui fanno riferimento è sempre la risposta a una situazione di crisi del regime di accumulazione capitalista. Per Schumpeter invece vale il contrario: l'imperialismo è solo un residuo passivo del passato destinanto a sparire con la diffusione del libero mercato.
Non è questa la sede, ma Schumpeter è l'intellettuale, assieme a Max Weber, che più di altri ha voluto misurarsi con i problemi e la «rivoluzione epistemiologica» operata tanto da Marx. E quindi è interessato a sviluppare una teoria «forte» che si misuri con gli stessi problemi. La sua sociologia degli imperialismo, e in misura meno sginificativa delle classi sociali, puntano a legittimare il libero mercato come potente dispositivo che sgombra il campo dagli arcaici arcaismi e conflitti tra le nazioni e i popoli.
Il lungo ventesimo secolo è la smentita più chiara e al tempo stesso drammatica di questa visione progressiva della storia umana che è alla base del pensiero di Joseph A. Shumpeter. L'imperialismo, infatti, non è stato solo espressione di una «logica di potenza» che ha pervaso le relazioni internazionali, ma anche un dispositivo immanente al capitalismo. Eppure, la tesi sul carattere arcaico dell'imperialismo ha avuto un revival proprio nella cosiddetta globalizzazione.
Dalla caduta del Muro di Berlino il refrain dominante ha indicato nel libero mercato lo strumento pacifico attraverso il quale l'umanità tutta avrebbe conosciuto un'era di pace e di prosperità. E con un ordine del discorso che non si discosta molto da quello di Schumpeter.
Il libro dell'economista austriaco non va dunque letto come un saggio sull'imperialismo, ma come un'opera per l'«ideologia politica» che esprime, nonostante tutti i tentativi dell'autore di darle una veste scientifica. E quindi un testo importante proprio in un momento dove la guerra è sempre lo strumento che regola i rapporti internazionali in un mondo dove il libero mercato è regola anch'essa dominante.
Le pagine sulla discussione inglese del XIX secolo attorno alla necessità di costruire un impero vanno infatti rilette alla luce della querelle tra unilateralismo e multilateralismo. E se l'unilateralismo prefigura una politica di potenza incentrata su un singolo stato, il multilateralismo prefigura quella governance planetaria che, in una situazione di imperium del libero mercato, determina le condizioni che «inventano», per il capitale, l'asimmetria di sviluppo, di «rapina» delle materia prime, di outsourcing, di produzione di mercati di sbocco. La lettura dei testi schumpeteriani è cioè propedeutica al ribaltamento del punto di vista che esprimono. L'imperialismo non come residuo del passato, bensì più semplicemente: l'impero come forma politica adeguata al capitalismo contemporaneo.
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