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La penna e il tamburo
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Gli Indiani d'America e la letteratura degli Stati Uniti
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il manifesto - 18 Aprile 2003
INDIANI RIBELLI AL CIECO DESTINO
Di felicità e di uguaglianza ci parla la gloriosa Dichiarazione d'Indipendenza americana, che,
però, contemporaneamente annuncia la demonizzazione e lo sterminio degli indiani.
L'ultimo libro di Giorgio Mariani, "La penna e il tamburo", pubblicato da Ombre Corte
di
ALESSANDRO PORTELLI
C'è una curiosa e feconda ambiguità nel titolo dell'ultimo libro di Giorgio Mariani, La penna
e il tamburo. Gli Indiani d'America e la letteratura degli Stati Uniti (Ombre Corte, 13: in
una collana intitolata "Americane", diretta da Roberto Cagliero e Stefano Rosso - tra l'altro,
tutti dell'equipe americanistica della rivista "Acoma"). Dunque: che cos'è il tamburo lo
sappiamo, e sappiamo che c'entra con gli indiani (Tamburi lontani...). Ma la penna? La
penna, ovviamente, è uno strumento di comunicazione che, come il tamburo, serve a
mandare messaggi. In questo senso, la penna è un'alternativa al tamburo, e una sua
continuazione con altri mezzi generati dalla conquista, dalla modernizzazione,
dall'acculturazione. Ma riferita agli indiani d'America, la penna evoca anche altre
associazioni: per esempio le penne che dalle mie parti noi bambini strappavamo alle galline
per mettercele in testa e giocare agli indiani (già allora nessuno voleva fare il cowboy). In
questo senso, allora, la penna suggerisce che anche quando si mettono a scrivere - e con la
frequenza e innovativa creatività che Mariani ci fa vedere - gli indiani non dismettono gli abiti
tradizionali e, con i nostri mezzi, fanno i conti con l'immagine che noi abbiamo di loro. "La
scrittura", dice Simón Ortíz, grande poeta americano del pueblo di Acoma in Nuovo Messico,
non è "un ponte attraversato, ma una parte del sentiero, della strada, del viaggio, su cui già
cammini". Il libro di Giorgio Mariani lo mostra con esemplare chiarezza, accompagnata ma
non offuscata da un rigore critico e da un aggiornato dialogo con la storia della critica
letteraria e le sue tendenze attuali. Ne viene fuori un libro che è al tempo stesso militante e,
nel senso migliore della parola, accademico; un contributo non marginale alla nostra
comprensione della complessità della cultura degli Stati Uniti.
Il libro è sostanzialmente diviso in due parti. Come spiega Mariani nell'introduzione, la prima
mette in luce il modo in cui l'identità degli Stati Uniti, non solo letteraria, "si è venuta
formando contrapponendosi a una identità indiana", peraltro "largamente concepita dal
punto di vista della cultura dominante euroamericana, e legata dunque alle immagini più o
meno stereotipate che quest'ultima ha proiettato sulle popolazioni indigene del Nord
America". Qui Mariani riprende criticamente una decisiva intuizione di Toni Morrison. In
Giochi nel buio, la grande scrittrice afroamericana ha dimostrato, infatti, che la "presenza
africanista" incombe su tutta la letteratura degli Stati Uniti, non solo in quei testi in cui gli
afroamericani sono presenti ma anche, forse soprattutto, dove sono cancellati. Lo stesso vale,
aggiunge Mariani, per l'altra fondamentale presenza sul suolo nordamericano, gli indiani (e il
fatto che Morrison non ne faccia cenno fa capire quanto divisa, settorializzata, sia l'identità
americana anche nelle sue punte più alte di coscienza).
Il margine, dunque, diventa centro: gli indiani, i neri, non sono un'alterità occasionale, un
esotismo coloristico o una minaccia incombente, ma una condizione istitutiva del discorso
dominante stesso. Un testo americano in cui non esistono indiani o neri è un testo americano
che ha preliminarmente compiuto il lavoro invisibile di cancellarli. "Non a caso", scrive
Mariani, la Dichiarazione d'Indipendenza, testo fondante della libertà americana, "menziona
i nativi esclusivamente come quegli `spietati selvaggi indiani', scatenati dalla corona inglese
contro le colonie"; e aggiungerei che la sacra Costituzione degli Stati Uniti d'America
menziona indiani e neri solo come "all other persons", "tutte le altre persone", conteggiate
per tre quinti nella rappresentanza elettorale dei bianchi ma privi essi stessi di voto e
cittadinanza. In un discorso recente, in vista della guerra all'Iraq, citando per intero il brano
della dichiarazione d'Indipendenza (che continua: "gli spietati selvaggi la cui ben nota
regola di guerra è un'indiscriminata distruzione di tutte le età, sessi e condizioni"), lo scrittore
indiano americano Sherman Alexie diceva: "dunque gli Stati Uniti sono stati fondati, in parte,
sulla demonizzazione dei Nativi Americani, ed è dannatamente facile giustificare lo sterminio
di demoni, no?" Io aggiungerei: non è curioso che quella gloriosa Dichiarazione sia per noi
"occidentali" la affermazione dell'uguaglianza e del diritto alla felicità, e sia per gli indiani
l'annuncio della loro demonizzazione e sterminio? Della uguaglianza e felicità di chi
andiamo parlando.
D'altra parte, un testo americano in cui gli indiani compaiono è un testo americano che ha
fatto o sta facendo il lavoro di rappresentarli come una proiezione di sé. Nel rapido ma
convincente excursus sulla storia della critica americana sulle rappresentazioni letterarie degli
indiani, da Roy Harvey Pearce a Richard Slotkin, da D. H. Lawrence a Leslie Fiedler, emerge
come anche la critica al genocidio mantenga una decisiva ambivalenza: da un lato,
riconosce la presenza degli indiani e la violenza esercitata su di loro dal progresso della
civiltà euroamericana; ma, dall'altro, li legge solo come oggetto della soggettività dei loro
distruttori, come problema per la coscienza di questi ultimi. Il senso di colpa è alimentato
dalla proiezione dell'indiano in un passato dal quale è destinato a non emergere perché la
sua estinzione si è già consumata o è inevitabile.
In realtà, come Mariani eloquentemente ci ricorda, gli indiani non erano e non sono estinti, e
hanno continuato in tutto il corso della conquista a parlare ai loro conquistatori, anche a costo
di doverlo fare nella loro lingua, nei loro termini, con i loro strumenti. Tra le grandi figure a
noi sconosciute della storia e della cultura americana, per esempio, dobbiamo annoverare
quel William Apess che sta alla storia degli indiani un po'come Frederick Douglass sta alla
storia dei neri. Indiano Pequot (è la tribù che dà il nome alla nave di Moby Dick) convertito al
protestantesimo, in tutta la prima metà dell'800 Apess continua a ribadire ai bianchi la loro
comune umanità con gli indiani, e a ricordare all'America le sue stesse leggi, le sue stesse
norme morali e religiose, che viola brutalmente nel modo come tratta gli indiani.
Mariani insiste giustamente sul fatto che Apess (come Frederick Douglass) e tutte le voci degli
indiani d'America nell'800 non rovesciano meccanicamente il discorso della cultura
dominante: se per i bianchi gli indiani sono "l'Altro", Apess, Black Hawk, George Copway,
Sara Winnemucca rifiutano di riconoscere un'alterità essenziale nei bianchi ma insistono a
rivolgersi ad essi come esseri umani simili a sé. Anche per questo, gran parte delle
autobiografie indiane che ci sono arrivate - da Black Hawk a Black Elk (Alce Nero) - sono in
realtà dialoghi, fra un narratore indiano e un ascoltatore, copista, interprete, traduttore,
scrittore bianco. Come ha scritto Arnold Krupat e come sviluppa Mariani, questi testi non ci
danno l'autenticità incontaminata di una cultura ma l'incontro fra due culture, il dialogo, il
confronto, lo sforzo di spiegarsi e di capirsi.
Questo diventa ancora più vero in tempi più vicini a noi, quando - soprattutto a partire dalla
fine degli anni `60 - esplode una specie di "rinascimento letterario" degli indiani d'America,
che produce testi ormai canonici per qualunque storia della letteratura americana, da House
Made of Dawn di N. S. Momaday a Ceremony di Leslie Marmon Silko, da Winter in the Blood
di James Welch a Indian Killer di Sherman Alexie. Proprio a questo romanzo - un horror
urbano intriso di rabbia politica e memoria storica - Mariani dedica un'analisi
ravvicinata,mostrando l'intreccio complesso delle categorie temporali tradizionali e
occidentali, "tra universo mitico e frammentazione postmoderna", come recita il titolo del
capitolo (e anche qui, un'ambiguità feconda: Indian Killer vuol dire sia killer indiano, sia killer
di indiani. E il romanzo si muove in questo spazio, fra dolore per la violenza subita e furore di
violenta vendetta).
Alla fine, il mistero dell'identità del killer resta irrisolto. Ma il mistero vero, come scrive
Mariani, è un altro: "una resistenza indigena alla colonizzazione euroamericana che
scompagina le strutture temporali delle 'grandi narrazioni' nazionali degli Stati Uniti". E
continua a farlo: "In quanto Nativo Americano, conosco intimamente la storia delle
menzogne americane in tempo di guerra e di pace. In parole povere, gli organi esecutivi e
legislativi degli Stati Uniti hanno violato tutti i trattati firmati con tutte le tribù Native, e solo
l'intervento occasionale e imprevedibile del ramo giudiziario ha restituito e protetto
occasionalmente la sovranità tribale. Perciò, come Nativo Americano, trovo paradossale che
gli Stati Uniti vogliano fare la guerra all'Iraq perché viola i trattati... Trovo gravissimo che
l'Iraq violi da dieci anni le risoluzioni delle Nazioni Unite, ma sono altrettanto scandalizzato
dal fatto che gli Stati Uniti hanno il coraggio di prendere una posizione di superiorità morale
a proposito di trattati violati".
"E' tutto nel passato, direte voi", canta la musicista Nativa Americana Buffy Sainte Marie, a
proposito di altri trattati violati, "ma succede ancora, qui ed oggi". Insomma, possiamo dire -
con le parole di un personaggio di Indian Killer che sono anche le parole con cui Mariani
sceglie di chiudere il suo libro: "Non è finita affatto".
Diario, 4 luglio 2003
Racconto degli indiani. La difficoltà di essere nativi
di Francesco Dragosei
Nel suo noto saggio del 1992, Giochi al buio: il bianco e il nero nella letteratura americana, la scrittrice Toni Morrison rileva come l’ossessiva e oscura presenza dei neri nella letteratura americana abbia costituito la pietra fondamentale su cui i bianchi hanno edificato la definizione di se stessi, oltre che dei propri schiavi neri. Per esempio, la sensibilità americana per la libertà e per i diritti umani sarebbe stata paradossalmente stimolata dallo stato di schiavitù in cui erano tenuti gli afro-american. Partendo da quel libro della Morrison, Giorgio Mariani si propone con questo suo bel saggio di dimostrare come, assieme a quella del nero, sia stata la figura dell’indiano a essere costantemente al centro profondo della letteratura e dell’io americano. Presenza fondamentale, ma al contempo così spesso deformata da potersi quasi parlare di un’invisibilità del Native American agli occhi dell’America bianca. I gradi di invisibilità varieranno nel corso della Storia. In una prima fase – al momento della conquista del continente – il Native American si vedrà negare l’appartenenza al genere umano, trasformato in creatura demoniaca e abietta, utile a giustificare l’intervento «civilizzatore» dei conquistatori. In una seconda l’indiano avrà un riconoscimento di umanità, ma non quello della propria soggettività: continuando a essere considerato un oggetto dell’osservazione dei bianchi. Frutto di tale visione sarà, per esempio, The Indian in American Literature: un classico scritto da Albert Keiser nel 1933, e che comincerà a gettare una qualche luce di verità sulla figura del Native American. Altre difficoltà sulla via del riconoscimento dell’indiano sorgeranno dal doversi la sua cultura prettamente orale inserire nella gabbia di scrittura (e altro) della tradizione letteraria europea. Difficoltà che saranno aggravate – per quanto riguarda i primi scrittori indiani – dal doversi essi esprimere in una lingua non propria, e, in un secondo momento, dal non ricordare nemmeno più l’idioma originario. Serie di ambiguità che si riassumono nel dilemma di uno scrittore indiano diviso tra «la penna» della cultura di arrivo e «il tamburo» della cultura di partenza.
Per fortuna, a riequilibrare un po’ la situazione, ci sarà a un dato momento la presenza di un certo numero di nuovi scrittori indiani (dalla Leslie Marmon Silko a Gerald Vizenor, a Sherman Alexie) che cercheranno di restituirci una visione realistica dell’indiano e della sua cultura. Della quale però – avverte Mariani – saranno parte talmente importante e imprescindibile i vari gradi di allontanamento da sé (e di assimilazione alla cultura statunitense) che sarebbe un nuovo, grave errore non riconoscerli, non prendere atto di quello che è ormai un complicato, stratificato (talora ambiguo) ibrido culturale. Un errore che, a questo punto, rappresenterebbe l’ennesimo atto di disconoscimento dell’indiano. Di accettazione della sua invisibilità.
Recensione di Matteo Sanfilippo sulla rivista telematica IPERSTORIA>
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