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La guerra dentro
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la psichiatria italiana tra fascismo e resistenza (1922-1945)
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il manifesto 6 gennaio 2009
Psichiatri italiani asserviti al bellicismo del regime fascista
di Franco Lolli
"Orbene, poiché la guerra contraddice nel modo più stridente a tutto l'atteggiamento psichico che ci è imposto dal processo di incivilimento, dobbiamo necessariamente ribellarci contro di essa..." Così scriveva nel 1932 Sigmund Freud a commento di alcune questioni che Einstein aveva sollevato all'interno di un dibattito epistolare organizzato dalla Società delle Nazioni sul perché della guerra. In poche pagine, di particolare densità e sorprendente attualità, il padre della psicoanalisi analizzava il complicato fenomeno della guerra attraverso il concetto di pulsione di morte - da lui teorizzato qualche anno prima - delegittimandone ogni possibile interpretazione in senso eroico o estetico. Qualche mese più tardi, nel 1933, Arturo Donaggio, presidente della Società Italiana di Psichiatria, concludeva la sua orazione di apertura dei lavori del XX Congresso con queste parole: "Vogliamo essere soldati di quest'Italia rinnovata dal Duce, da Lui ricondotta alle più alte tradizioni; da Lui guidata, con passo fermo e sicuro, verso le vie dell'avvenire."
La distanza tra le due posizioni è abissale; da un lato Freud che considera il ricorso all'uso della forza e della violenza un fallimento del percorso di sviluppo dell'umanità, dall'altro un eminente psichiatra italiano che, nella sua funzione di rappresentante della propria categoria, esalta la stirpe italiana in un'atmosfera di mobilitazione e di attivismo prebellico. Al rigore intellettuale e lungimirante del primo si contrappone il chiaro asservimento al regime del secondo. Su questo intreccio tra la psichiatria italiana e la vicenda politica del fascismo indaga il libro di Paolo Francesco Peloso, La guerra dentro un saggio colto e documentato che esamina con occhio critico e privo di pregiudizi ideologici la posizione e il ruolo che la psichiatria assunse dall'ascesa della dittatura fascista, fino al suo declino. L'autore inscrive l'atteggiamento opportunista e fazioso di una parte significativa della psichiatria italiana all'interno di una ben più complessa dialettica esistente tra scienza e politica e nel dibattito più generale sulla possibilità/impossibilità della scienza di mantenersi/rendersi autonoma nei confronti della politica. Un dibattito ancora aperto, che non può essere ridotto alla legittima considerazione critica relativa alla applicazione delle innovazioni tecnologiche in ambiti eticamente discutibili, (alle armi di distruzione di massa, ad esempio) ma che coinvolge due questioni di grande attualità: per un verso, la valutazione di quanto la produzione del sapere scientifico possa essere indirizzata dal potere economico-politico, condizionata dai suoi fini e influenzata da visioni ideologiche più che dalla acquisizioni di dati o di osservazioni incontestabili; per l'altro verso, la responsabilità della ricerca scientifica di aprire nuovi scenari socio-politici e di orientare, a sua volta, l'opinione pubblica e il clima culturale. Due aspetti il cui intreccio è ben individuato da Peloso a proposito dei lavori della psichiatria europea sull'eugenetica e sulla questione razziale, lavori avviati già negli ultimi anni dell'800 - dunque, prima dell'instaurazione dei totalitarsmi nazifascisti - ma che proprio dall'avvento dei due regimi hanno avuto un rinnovato impulso.
la Repubblica - (edizione genovese) 5 novembre 2008
Psichiatri e fascismo. La guerra dentro
di Paolo Arvati
Cogoleto, sera del 2 giugno 1922: un giovane infermiere dell'ospedale psichiatrico, mentre passeggia in compagnia di due colleghi, viene inspiegabilmente aggredito. Dopo un breve alterco, il poveretto è ferito a morte con vari colpi di rivoltella. La stampa genovese non attribuisce al fattaccio alcun movente politico, anche se l'infermiere è un socialista e l'assassino è conosciuto in paese come un tipaccio sempre disposto a menare le mani. Non ci saranno più dubbi invece su un episodio che accadrà solo tre mesi dopo. Nella notte tra il 3 e il 4 settembre (siamo ormai alla vigilia della marcia su Roma) una squadraccia di una sessantina di fascisti, pare di Varazze, irrompe in camicia nera nel manicomio di Cogoleto, con la scusa di cercare una bandiera rossa della Lega sindacale. Seguono perquisizioni degli armadi, maltrattamenti degli infermieri, colpi di pistola nei viali. Con questi due episodi emblematici inizia "La guerra dentro" (Ed. Ombre Corte, settembre 2008), un bel saggio sui rapporti tra psichiatria e fascismo scritto da Paolo Peloso che di mestiere fa lo psichiatra presso il Dipartimento di Salute Mentale di Genova. Il titolo segnala il paradigma interpretativo proposto: per il fascismo la guerra permane "come stato d'animo e stile mentale nei rapporti quotidiani". A questa idea ben presto la psichiatria italiana finisce per adeguarsi. Al fascismo corrispondono infatti un consolidamento degli aspetti autoritari del controllo, un'estensione del concetto di pericolosità sociale e dunque della pratica di internamento. Non è certo un caso che in Italia tra il 1926 e il 1941 si registri un aumento dei ricoverati da 60 a 96 mila, con conseguente brusca accelerazione della costruzione di nuovi manicomi (a Genova quello di Quarto). Negli stessi anni in Germania l'ideologia nazionalsocialista della purezza della stirpe investe il malato di mente prima di ogni altro. Anche se non si arriva alle mostruosità naziste, tra gli psichiatri italiani più autorevoli c'è chi sostiene il razzismo coloniale e poi quello antisemita, sulla scia di un complesso percorso di impronta positivista, sino alle tesi "eugenetiche" che auspicano una scienza capace di modificare e dirigere l'evoluzione della specie. A questo proposito Genova è un osservatorio importante per lo studio della psichiatria di regime: a Genova infatti opera sino alla morte, avvenuta nel 1929, Enrico Morselli, il più autorevole psichiatra italiano del tempo, firmatario nel 1925 del Manifesto intellettuale del fascismo insieme a Gentile, Pirandello e Ungaretti. Ma a Genova si forma anche un ambiente di oppositori: la figura più prestigiosa è quella di Ottorino Balduzzi, neuropatologo e psichiatra di fama nazionale, comunista, nella Resistenza fondatore dell'Organizzazione Otto (che da lui prende il nome) con il compito di mantenere contatti con il Comando Alleato ad Algeri. Neuropsichiatra è anche l'azionista Cornelio Fazio, uno dei soli quattro docenti genovesi di Medicina ad aver rifiutato il giuramento alla Repubblica Sociale.
Tra i tanti meriti del libro di Paolo Peloso, quello principale è di aver raccontato con una mole straordinaria di documentazione una delle vicende meno note della storia sia della cultura italiana, sia anche della nostra città.
Il Secolo XIX - 28 settembre 2008
La malattia mentale e il fascismo
di Paolo Battifora
Una triplice incarcerazione: dentro il manicomio, dentro il regime, dentro la guerra. E' la dolorosa vicenda di tutti coloro che, malati di mente o bollati come tali, furono internati nei manicomi sotto il fascismo e negli anni della Seconda guerra mondiale. Un periodo, quello del ventennio fascista, durante il quale il sapere psichiatrico giocò un importante ruolo sociale, offrendo in molti casi legittimazione scientifica alla politica coloniale e razzista di Mussolini. A ricostruire gli sviluppi della psichiatria italiana tra le due guerre e i profili dei principali esponenti è lo psichiatra genovese Paolo Francesco Peloso che, dopo aver affrontato in un precedente libro la storia della psichiatria nell'età del positivismo, in "La guerra dentro" (Ombre corte, pag. 282, Euro 22) focalizza la sua analisi su un arco temporale che, dalla presa del potere del fascismo, giunge sino alla Liberazione.
Plurima la valenza del titolo. Evento traumatico dagli effetti psichici devastanti e spesso irreversibili, la guerra e la violenza sempre più erano state introiettate dagli italiani, chiamati dal regime ad una incessante lotta contro i nemici interni della nazione. Appiattiti su un paradigma neurologico-riduzionista (nel mero fattore organico andava individuata la patogenesi psichica), di cui la pratica dell'elettroshok, messa a punto nel 1938 da Ugo Cerletti, può essere un indizio rivelatore, gli psichiatri italiani salutarono con favore l'incremento delle strutture manicomiali (in un quindicennio gli internati sarebbero passati da 60mila a 96mila), istituzioni totali cui demandare la cura e la sorveglianza - ma anche la repressione - di soggetti ritenuti incompatibili con l'ingegneria sociale del regime. Se evidenti affinità ideologiche, emerse in occasione di dibattiti eugenetici (fermo, però, rimase il rifiuto a qualsiasi programma-eutanasia analogo a quello nazista) o in occasione dell'elaborazione del Manifesto della razza, portarono la maggioranza dei camici bianchi a schierarsi col fascismo, non mancarono tuttavia psichiatri che con coraggio, e a rischio della vita, seppero opporsi a Mussolini: tra costoro l'autore ricorda in modo particolare il primario di San Martino Ottorino Balduzzi, fondatore dopo l'8 settembre dell'organizzazione partigiana Otto e poi deportato a Mauthausen, e tutti quei medici periti nel corso dei bombardamenti insieme ai loro pazienti (24mila furono i ricoverati morti per cause dirette o riconducibili alla guerra). Un tragico bilancio, reso ancor più drammatico da un tasso di mortalità che, durante il conflitto, risultò essere nei manicomi ben 60 volte superiore rispetto a quello della società civile: una strage dimenticata.
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