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Roberto Cagliero e
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Francesco Ronzon (a cura di)
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Spettri di Haiti
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Dal colonialismo francese all'imperialismo americano
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il manifesto, ...
CRONACHE DALLA PRIMA REPUBBLICA NERA
"Spettri a Haiti. Dal colonialismo francese all'imperialismo americano", un volume collettivo sulla storia della prima nazione che ha raggiunto l'indipendenza attraverso la rivoluzione dei giacobini neri fino alla classificazione dei suoi abitanti come "gruppi a rischio" per la diffusione dell'Aids
di FERDINANDO FASCE
Un paio d'anni fa la mia torpida beatitudine di ex studente di filosofia in disarmo fu improvvisamente incrinata da un provocatorio articolo di una studiosa di Cornell su Hegel e Haiti. La studiosa si chiama Susan Buck-Morss e il saggio avanzava l'ipotesi che, dietro la famosa dialettica schiavo-padrone, non ci fossero, come era stato sostenuto autorevolmente per decenni da fior di studiosi, echi fichtiani o aristotelici. No!!, gridava Buck-Morss dalle pagine di Critical Inquiry: a suo dire, dietro le celebri righe della Fenomenologia c'erano invece lo spirito e la carne, ben più corposi e pressanti, delle incalzanti cronache sull'Haiti della rivoluzione nera di Toussaint L'Ouverture e Dessalines allora in corso. Cronache ospitate, con grande assiduità, sin dal 1792, dalla rivista tedesca massonica "Minerva", della quale Hegel era lettore abituale, come risulta dalle sue lettere. Non sono in grado, per il suddetto disarmo, di stabilire quanto la cosa possa essere attendibile dal punto di vista strettamente filologico. Ma mi ha fatto piacere ritrovare questo saggio in apertura di un libro, le cui dimensioni sono, una volta tanto, inversamente proporzionali alla ricchezza degli spunti che contiene, appena uscito a cura di Roberto Cagliero e Francesco Ronzon, Spettri a Haiti. Dal colonialismo francese all'imperialismo americano (Ombrecorte, 2002, pp. 189, € 13,50). Intanto perché Buck-Morss è brillante e stringe d'assedio con grande efficacia, almeno agli occhi di un profano, le ardue pagine hegeliane, anche se, a dirla tutta, nella sua giusta polemica contro la maggioranza dei "marxisti" e la loro sottovalutazione sistematica della questione della schiavitù, finisce, a sua volta, per sottovalutare frettolosamente sia le pregnanti osservazioni in proposito dello stesso Marx (sulle quali resta decisiva la pionieristica Introduzione di Bruno Cartosio al formidabile Lo schiavo americano dal tramonto all'alba del grande studioso Usa George Rawick, Feltrinelli, 1973), sia l'insuperato lavoro storico di C.L.R. James I giacobini neri (Feltrinelli, 1968). E poi mi ha fatto piacere perché il saggio di Buck-Morss costituisce la più opportuna apertura, sia sul piano metodologico che su quello sostantivo, di un discorso sulla controversa e drammatica vicenda di Haiti: unica esperienza rivoluzionaria afroamericana coronata dall'indipendenza nella cosiddetta "età delle rivoluzioni", e risoltasi, però, poi, in una lunga storia di dipendenza di fatto e incapacità di "rompere del tutto le catene del proprio passato coloniale"; una vicenda che mette capo alla condizione odierna di "nazione... più povera dell'emisfero occidentale, luogo di uno stato-fantasma nel quale la corruzione è difficilmente distinguibile dai processi di democratizzazione".
Cominciare questo viaggio fra letteratura e storia, materiale e immaginario, nel lungo arco di tempo compreso fra l'indipendenza di Haiti (1804) e il ritorno del legittimo presidente Aristide nel 1994, dal saggio di Buck-Morss, significa infatti mettersi risolutamente sulla strada della decostruzione delle nozioni di base dell'identità moderna occidentale e farlo nel modo più coraggioso, in un intreccio-sfida dal basso verso l'alto (dei soggetti e dei saperi). Significa, cioè, ricercare il bandolo di una realtà "costantemente presentata come una specie di `lato oscuro' dei Carabi, un composto di barbarie, violenza e sangue".
Ma, occorre sottolinearlo, il libro dipana la sua complessa trama con grande sobrietà, senza fughe in avanti ideologiche o cadute retoriche. Né, però, si nega all'evidenza di presenze e suggestioni di lungo periodo, sapientemente rintracciate in un felice connubio di analisi testuali e ricostruzioni storiche. Così Cagliero, nel suo bel saggio dedicato al rapporto culturale e umano fra Haiti e gli Stati Uniti nel corso dell'Ottocento, raccoglie il testimone da Buck-Morss e insegue pazientemente gli echi preoccupati che la rivoluzione haitiana scatena fra i piantatori del Sud degli Stati Uniti, attraversati dal demone della rivolta dei loro schiavi. Per poi alzare lo sguardo e inoltrarsi, con assoluta persuasività, nella più rarefatta atmosfera di una oscura recensione, probabilmente opera di Edgar Allan Poe, a volumi apologetici della schiavitù ospitata dal "Southern Literary Messenger", o spingersi improvvisamente in avanti, fra le pieghe del Faulkner di Assalonne! Assalonne! Dal quale ultimo emerge quella "grande paura" del "contagio", degli "orrori dell'incrocio delle razze" che Cagliero ritrova poi nelle "invenzioni mediche" che, sullo scorcio del ventesimo secolo, producono lo stereotipo-stigma dell'equazione Haiti=Aids, facendo degli abitanti dell'isola i responsabili della diffusione della malattia negli Usa.
A tale tema è dedicato il saggio che chiude il libro, Aids e razzismo, di Paul Farmer, medico operante fra Boston e Haiti e studioso di medicina sociale, che rintraccia i tropi del razzismo e dell'esotismo nella sicumera con la quale, in base a un'"antropologia da salotto che sottolinea l'esotismo e l'endemicità della malattia", nel 1982 il Center for Disease Control statunitense disegna il profilo degli haitiani come "gruppo a rischio-Aids". Salvo poi dover far marcia indietro, sotto l'ampia controevidenza mobilitata dagli studiosi haitiani, ma senza commenti, senza mai riconoscere ufficialmente l'errore. E anzi di fatto continuando a discriminare gli isolani, impedendo loro di donare il sangue negli Stati Uniti in quanto contagiati.
Fra i piantatori del Sud pre-guerra civile e i loro discendenti dell'età di Reagan ci sono le tappe intermedie dell'occupazione statunitense del periodo 1915-34 e della dittatura di Papa Doc Duvalier, a partire dai tardi anni cinquanta. Tappe rilette da J. Michael Dash e da Ronzon, alla luce, tutta intrisa delle convenzioni primitiviste, dei resoconti di alcuni marines, e a quella inquieta del Graham Greene di Comedians. Dunque un lavoro di grande rilievo, che consente al lettore italiano, unitamente al citato libro di James e alla preziosa raccolta degli scritti di Toussaint La libertà del popolo nero, curata anni fa da Sandro Chignola (Torino, La Rosa, 1997), di guardare alla "prima repubblica nera del mondo" che "si dibatte tuttora contro istanze totalizzanti interne ed esterne".
L'Arena, 11 Febbraio 2003
Una raccolta di saggi approfondisce le ragioni di un'infamia
Quel pregiudizio razziale con cui fu bollata Haiti
Si disse che la popolazione trasmetteva l'Aids. Senza fondamento
di NICOLA PASQUALICCHIO
Nel marzo 1983, due anni dopo l'annuncio ufficiale da parte della letteratura medica dell'esistenza di una nuova malattia che sarebbe di lì a poco diventata universalmente nota col nome di Aids, l'americano Center for Desease Control stilò l'elenco dei quattro gruppi maggiormente a rischio: omosessuali, emofiliaci, eroinomani, haitiani. Se, alla luce della conoscenza delle vie di trasmissione della malattia, non desta stupore la sua elevata frequenza nelle prime tre categorie, la presenza degli haitiani non può invece non lasciare perplessi. Ovviamente priva di un serio fondamento scientifico, e perciò ufficialmente revocata due anni più tardi, tale inclusione lasciò però a lungo sulla gente di Haiti il marchio di popolazione infetta, "naturalmente" portatrice di Aids, con effetti devastanti sul turismo dello Stato caraibico e sulle comunità haitiane residenti negli Usa, sottoposte a gravi discriminazioni. La presenza, alla base di questo episodio, di pregiudizi razziali, è tanto evidente quanto insufficiente a offrirne una spiegazione: perché, infatti, solo gli haitiani e non altri gruppi etnici - caraibici o no - vennero indiziati come portatori del contagio? La risposta, inquietante e al contempo affascinante per la ricchezza delle implicazioni storiche e antropologiche, la si trova nel bel libro Spettri di Haiti , curato da Roberto Cagliero e Francesco Ronzon, edito da Ombre Corte. I cinque saggi di cui il volume si compone (firmati, oltre che dai curatori, da Susan Buck-Morss, J. Michael Dash e Paul Farmer) alternano e combinano gli strumenti della critica letteraria e dell'antropologia, della filosofia e della medicina sociale per analizzare il progressivo costituirsi di Haiti come minacciosa zona d'ombra dell'immaginario occidentale, statunitense in particolare: arrivando a dimostrare come quella dell'Aids altro non sia che la più recente incarnazione di una persistente connessione simbolica tra Haiti e l'immagine del contagio.
Quando nel 1804 ad Haiti la rivoluzione degli schiavi neri si concluse con la conquista dell'indipendenza e la costituzione della prima "repubblica nera" al mondo, il fatto suscitò stupore e inquietudine anche presso quegli intellettuali europei che avevano sposato le idee rivoluzionarie e, almeno a parole, si battevano per l'abolizione della schiavitù; ma negli Stati Uniti generò un più concreto terrore di una possibile "epidemia", la paura cioè che la ribellione e le violenze contro i bianchi che l'avevano accompagnata potessero dilagare nel continente.
Da quel momento Haiti fu vissuta come una minaccia per la civiltà bianca, una scheggia di Africa nera che poteva incunearsi nel corpo sano della civiltà occidentale per corromperlo e disgregarlo. Alimentata dalle leggende sorte intorno ai riti voodoo e dalle dicerie sulle pratiche di cannibalismo, rafforzata dall'impressione che la popolazione haitiana, sottratta alla "paterna" guida dei bianchi, stesse precipitando verso un'ancestrale barbarie, l'immagine di una negritudine selvaggia e violenta s'impone nelle cronache sensazionaliste dei giornali americani, nei racconti di viaggio, nelle opere letterarie.
Lo "spettro di Haiti" si aggira minaccioso tra le pagine di Poe e di Melville, ma ispira anche, inaspettatamente, una delle più celebri figure della Fenomenologia di Hegel, la dialettica servo-padrone. E i terrori immaginari che quello spettro suscita non si smorzano nella letteratura del Novecento: soprattutto all'epoca del regime dittatoriale dei Duvalier (1957-1987), vari autori ribadiscono gli stereotipi razzisti sul popolo caraibico. Con l'eccezione almeno parziale di Graham Greene, che nel romanzo The Comedians mette in scena non tanto la degenerazione caraibica quanto l'incapacità da parte dell'Occidente di opporre alla "barbarie" haitiana una riconoscibile e condivisibile identità morale.
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