Abdelmalek Sayad
L'immigrazione o i paradossi dell'alterità
L'illusione del provvisorio
 
il manifesto - 7 marzo 2008

Vite in transito tra due mondi

Tra desiderio del ritorno e riduzione a nuda forza-lavoro. «L'immigrazione o i paradossi dell'alterità. L'illusione del provvisorio», un saggio dello studioso franco-algerino Abdelmalek Sayad

di Maurizio Ricciardi

«Non si è ancora trovato il Machiavelli dell'immigrazione». Con questa lapidaria affermazione lo studioso franco-algerino, ricercatore presso il Cnrs e all'École des hautes études en sciences sociales, Abdelmalek Sayad indica il cammino teorico e pratico che ancora rimane da compiere per riconoscere ai movimenti migratori il loro carattere eminentemente politico. D'altronde, tutta la produzione scientifica di Sayad è volta a elaborare questa realtà misconosciuta dei movimenti migratori. Nel suo fondamentale studio La doppia assenza. Dalle illusioni dell'emigrato alle sofferenze dell'immigrato, tradotto nel 2002 da Raffaello Cortina Editore, lo studioso aveva mostrato come il migrante contemporaneo viva una condizione che lo porta a non essere mai definitivamente presente nella terra di arrivo e sempre parzialmente assente da quella di partenza.

Paradossi da svelare

In realtà, oltre a toccare il destino individuale di ogni migrante, questa duplice incerta presenza investe in maniera determinante lo statuto politico della stessa migrazione, in quanto fenomeno strutturalmente collettivo. Essa si presenta, infatti, come assenza di ogni possibile e autonoma definizione del rapporto di dominio che si stabilisce con la migrazione stessa. I saggi ora pubblicati con il titolo L'immigrazione o i paradossi dell'alterità. L'illusione del provvisorio (Verona, Ombre corte, pp. 127, euro 13) approfondiscono le linee di questa ricerca che mira a chiarire alcuni paradossi costitutivi che gravano sull'analisi delle migrazioni, per liberarla da quella veste di «fenomeno naturale» che emerge tanto nel discorso pubblico quanto nell'analisi sociologica. Lacerare la veste della «naturalità» delle migrazioni è uno degli elementi del programma scientifico che per decenni ha unito Sayad e Pierre Bourdieu, nel tentativo di indicare chi trae concretamente beneficio dalla produzione asimmetrica del potere sociale.
Il fatto che il carattere politico delle migrazioni sia misconosciuto - e perciò anch'esso sempre assente - ogni discorso sulle migrazioni è costruito quasi inevitabilmente attraverso una serie di rimandi ad altre sociologie: la sociologia del diritto, se la cifra specifica dell'essere migranti è determinata da una condizione giuridica più o meno codificata; la sociologia delle istituzioni politiche se viene sottolineata la minore o maggiore integrazione sociale; la sociologia della cultura se i migranti vengono definiti sulla base di differenze culturali più o meno laceranti. E la soluzione di fare ricorso a una specifica sociologia delle migrazioni non risponde al problema politico posto dai migranti, visto che essa rischia sempre di presentarsi come paradossale sintesi di tutte le altre.
Il paradosso sta nel fatto che, come scrive Sayad, «un immigrato è sostanzialmente forza-lavoro e una forza lavoro provvisoria, temporanea, in transito». Ciò non significa che egli sia estraneo a rapporti giuridici, istituzionali o culturali, ma che il rapporto di dominio in cui tutti i migranti si trovano inscritti impone che essi accettino non solo la coazione al lavoro, ma anche e soprattutto le condizioni di lavoro, per così dire, stabilmente irregolari che vengono loro riservate. Questa «irregolarità» del lavoro migrante corrisponde quindi alla possibilità di sfruttare nello spazio e nel tempo il lavoro che viene offerto. Non è peraltro casuale che Sayad abbia come riferimento privilegiato una vicenda come quella dei migranti algerini in Francia, iniziata nel 1830, ma che ha mostrato con la rivolta delle banlieus che non esiste alcuna integrazione progressiva attraverso il lavoro. Il carattere irregolare del lavoro migrante è segnato così dalla reversibilità costante delle condizioni raggiunte, da luogo a luogo, da generazione a generazione, fosse anche solo per il riattivarsi di quella linea del colore che consente comunque una segmentazione razziale del mercato del lavoro.

L'impossibile ritorno

Da questo punto di vista i migranti vivono condizioni universali di sfruttamento dalle quali non possono liberarsi mettendo fine alla loro condizione per così dire più evidente e manifesta, cioè quella di migranti, ma solo mettendo in discussione lo stesso rapporto di lavoro salariato. Qui non è questione del lavoro come strumento di emancipazione o come spazio di riconoscimento sociale, ma del fatto inequivocabile che il lavoro migrante stabilisce una cesura che ne impedisce l'identificazione come terreno universale di riconoscimento. D'altra parte, come Sayad mette mirabilmente in luce nel terzo dei saggi qui presentati, il ritorno in patria, la fine desiderata e temuta della condizione di emigrante, altro non è che un «elemento costitutivo della condizione dell'emigrato». Il ritorno, spesso più vagheggiato che realmente programmato, si risolve il più delle volte nella ricomparsa in un luogo profondamente mutato, che si è costruito nel tempo solo grazie alla presenza di chi altrimenti sarebbe rimasto piuttosto nascosto o ignorato, proprio in forza dell'assenza di chi è emigrato. L'immigrato di ritorno è un «mutante di nuovo genere», che per di più ha frequentato il mondo dei potenti della terra abbandonando la propria. Assenza su assenza, paradosso su paradosso, la condizione migrante si presenta così come un'infrazione al politico moderno, per il suo essere continuamente presente, al di fuori dei confini stabiliti dalla nazionalità, dalla territorialità, dalla statualità di appartenenza. Come scrive Pierre Bourdieu, nella sua prefazione: «l'immigrato costringe a ripensare ripetutamente la questione dei fondamenti della cittadinanza e della relazione fra Stato e nazione, o nazionalità». Si può aggiungere che per quanto fragile e apparentemente impotente la sua presenza agisce come depotenziamento costante di quel criterio del politico che pretende di dislocare all'esterno di confini e limiti precisi i propri nemici.






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