Gilles Deleuze
Cosa può un corpo?
Lezioni su Spinoza
 
ALIAS - il manifesto - 3 novembre 2007

UN CORSO SU SPINOZA E ALTRI TESTI
I concetti-mappa gettati nella mischia filosofica

di Marco Pacioni

Felice è stata l'idea di intitolare Cosa può un corpo Lezioni su Spinoza (a cura di Aldo Pardi, Ombre corte, pp. 202, € 18,50) la trascrizione di un corso del 1980-'81 sul filosofo olandese. Dal titolo risalta immediatamente la direzione interpretativa di Deleuze: quella della trasformazione. Diventare altro per Deleuze però non significa annientarsi, ma liberarsi dall'identità. Dall'idea che nella persona ci sia una parte immodificabile. Per questo la domanda fondamentale non è più "cosa si è", ma "cosa si può". Chi ha per primo spostato il senso della domanda, compiendo così una rivoluzione filosofica, secondo Deleuze, è stato proprio Spinoza. Egli ritiene che occorre concepire la realtà anzitutto come un flusso dinamico. Nessuna gerarchia, origine, trascendenza. Prima e dopo si equivalgono. È l'aumento o la diminuzione di potenza determinata dagli incontri a determinare i corpi. Immersi nell'immanenza essi devono soprattutto capire che cosa gli è possibile. Gli occorre comprendere il loro "slancio vitale", direbbe Bergson. Nessuna saggezza astratta però può sostituire l'esperienza. Bisogna praticare l'altro. Per tale motivo, nonostante sia un discorso teorico sull'ontologia, Spinoza decide di intitolare la sua opera più importante Etica. Che tuttavia non ha niente a che fare con la morale. Un'etica al di là del bene e del male, come quella di Nietzsche. Fra i due, Deleuze in più occasioni traccia un'affinità che talvolta sembra diventare una vera e propria genealogia. Pur mantenendo l'intento pedagogico - queste trascrizioni confermano la straordinaria capacità d'insegnamento vista nei filmati delle sedute dei suoi corsi -, in queste lezioni traspare chiaramente come Spinoza e Nietzsche diventino soprattutto le maschere, i personaggi filosofici dietro i quali parla lo stesso Deleuze. Sono i personaggi di una storia diversa rispetto a quella che 'vuole' la filosofia, anzitutto, come meditazione sulla morte, intonazione triste, risentimento, potere. Quella di Spinoza e Nietzsche è la storia della liberazione, della vita. "Nietzsche è spinozista. Entrambi pensano che il vero potere sia in ultima istanza aumentare la potenza. Spinoza direbbe che non vale mai la pena di provare tristezza. Solo i frustrati costruiscono sistemi di potere basati sulla tristezza. Hanno bisogno della tristezza degli altri. Possono regnare solo facendoli schiavi, perché la schiavitù è precisamente il regime in cui la potenza diminuisce". Spinoza e Nietzsche sono stati una presenza costante nella ricerca di Deleuze, come è confermato anche dai tanti riferimenti che si possono trovare nella raccolta L'isola deserta e altri scritti Testi e interviste 1953-1974, ora in italiano a cura di Deborah Borca (introduzione di Pier Aldo Rovatti, Einaudi, pp. XVII + 380, € 24,00). Non si tratta di un libro assemblato da Deleuze, ma ciò lo rende ancora più importante per osservare le continuità e le cesure del suo percorso. La brevità e l'ordinamento cronologico degli scritti "ci fa rallentare " - suggerisce Rovatti - "e così comprendiamo meglio la multiversità di Deleuze".MaL'isola deserta non disegna un'autobiografia filosofica. Deleuze non capitalizza nessuna delle sue idee per garantirsi la rendita di una fisionomia stabile. Tutto proiettato all'esterno, spende, sperpera i concetti. Come si è detto, a Deleuze interessano i personaggi inseriti in dispositivi narrativi, cioè quelli che mutano, come l'amatissimo Zarathustra. Per questa ragione, "l'incontro finora mancato con il suo pensiero", cui Rovatti crede possa iniziare a sopperire questa raccolta, probabilmente non si potrà mai realizzare pienamente. Forse non è auspicabile che ciò avvenga. Deleuze è legato alla forza espressiva dei concetti che ha creato. E se alcuni di questi non sono più efficaci, occorre abbandonarli e conservare soltanto quelli che funzionano. Fabbricarne altri semmai. "Ci sono parole che Félix e io sentiamo urgente non usare più". Deleuze non sta tanto in quello che ha detto, ma in quello che ha da dire e nel modo in cui le sue parole sanno innescare o disinnescare meccanismi - farli esplodere politicamente. Come dimostra un suo intervento pubblico del 1988 dedicato a Foucault e recentemente tradotto in italiano - Che cos'è un dispositivo? (a cura di Antonio Moscati, Cronopio, pp. 42, € 5,00) -, egli ha sempre ammirato i pensatori che, come Foucault appunto, hanno fornito dispositivi o analizzato la realtà attraverso figurazioni complesse e al tempo stesso icastiche. "I dispositivi sono come macchine per far vedere. La visibilità non rinvia a una luce in generale che illumini oggetti preesistenti, ma è fatta di linee di luce che formano figure variabili". Deleuze è un visionario. Non nel senso di chi immagina cose diverse dalla realtà, ma di chi riesce a vedere in essa delle figure che ne disegnano una comprensione. Gettare nella mischia astratta del linguaggio filosofico parole come "piega", "rizoma", "schizofrenia", "isola" ricrea il pensiero, disegna logiche. Deleuze, che vuole sempre "diventare altro" - come ricorda intelligentemente Rovatti -, non vuole però mai perdersi. La forza dei suoi concetti è quella delle mappe.Come già nell'immanenza di Spinoza così anche nell'Isola deserta la varietà dei temi, delle occasioni e dei riferimenti ci mostra un Deleuze che traccia direzioni. Alcune di esse sono e rimarranno a lungo un aiuto insostituibile per muoverci.



il manifesto - 24 novembre 2007

Il saper fare che cancella il comando e l'obbedienza Pubblicate le lezioni di Gilles Deleuze su Spinoza.
Un piccolo capolavoro di insegnamento e di riflessione filosofica

di Augusto Illuminati

Dal punto di vista autoriale e proprietario incerto è lo statuto di questo Cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza di Gilles Deleuze, curato e prefato da Aldo Pardi per Ombre Corte (pp. 202, euro 18,50) - versione italiana della sbobinatura, reperibile in rete (www.webdeleuze,com), delle lezioni dedicate a Spinoza (gennaio 1978; novembre 1980-marzo 1981) - ma che meraviglia di immediatezza filosofica e di efficacia didattica. Naturalmente viene spontaneo raffrontarla con i grandi testi consacrati negli anni '60 dallo stesso Deleuze all'Olandese nonché al complementare Nietzsche. Qui è più evidente per un verso il confronto con la tradizione accademica più innovativa (Martial Gueroult e Ferdinand Alquié), per l'altro un corpo a corpo con il testo che consente una trasmissione impagabile al pubblico, con un'esplicita traduzione esistenziale e politica dei luoghi più astratti dell'ontologia, anzi con l'assunzione tutta politica della dimensione ontologica.

I tre gradi di conoscenza

La lezione introduttiva del 24.1.1978 pone già tutti i termini del problema: il rapporto fra idea, affetto e affezione, l'impersonalità automatica della successione delle idee, l'incessante variazione della potenza del corpo e della mente, la composizione positiva e negativa dei corpi, l'essere il nostro corpo determinato dall'insieme dei rapporti che lo affettano e che è in grado di organizzare. Dunque, nulla conta se non la mappa degli affetti di cui un corpo è capace, risultandone saturato nelle due opposte direzioni del potenziamento o depotenziamento indefinito della propria potenza di agire. La felicità dell'incontro appagante, l'autodistruzione dell'overdose. Il passaggio dalla passione all'azione. L'Etica non è una morale precisamente perché Spinoza non chiede mai cosa «si deve» fare, ma cosa si è in grado di fare, tratta della potenza non del dovere. In altri termini (lezione 2) è un'etologia che non rinvia ad alcuna istanza superiore.
Nelle lezioni successive Deleuze affronta originalmente la partizione in tre gradi della conoscenza, accentuando la riduzione di quella immaginativa a errore, insistendo sul carattere singolare e non astrattivo delle nozioni comuni, il cui ruolo è soprattutto di intensificare la potenza di agire, definendo rigorosamente il terzo genere di conoscenza come connessione reciproca di intensità pure, di essenze singolari liberate dalle parti estese.
Con un percorso solo apparentemente a zig-zag si tocca poi il problema del diritto naturale fondato sulla potenza e dei rapporti con Hobbes (lezione 3), riprendendo il motivo della razionalizzazione come costruzione utilitario-cooperativa e non realizzazione dell'essenza dell'uomo; l'equipollenza e pari legittimità di ragione e follia dal punto di vista della potenza naturale e lo loro differenziazione solo negli affetti che ne conseguono sul piano sociale; il fondarsi della società sulla consensualità e non sulla superiore competenza del saggio (lezione 4). Su quest'ultimo punto si registra una convergenza sostanziale con Hobbes, mentre le strade si divaricano quanto alla persistenza del diritto naturale e soprattutto per le decise conseguenze anti-gerarchiche che Spinoza ne trae sia per rifiutare qualsiasi metafisica dell'«Unicità» sia per negare la riduzione dello Stato alle funzioni di comando e obbedienza. La fine dello Stato è infatti la libertà, cioè il più ampio sviluppo della potenza, mentre l'obbedienza vale solo se funzionalizzata a ciò. Se non c'è un «Uno» superiore all'essere, allora bene e male sono nulla, non semplicemente relativi ma relativi alla differenza dei gradi intensivi di potenza che risultano da combinazioni aleatorie (lezioni 5-6). Non si nasce né liberi né razionali: come lo si diventa? Attraverso un complesso discorso sull'infinito, dove spicca l'illuminante contrapposizione, desunta dal critico d'arte Alois Riegl, fra l'universo ottico-tattile dei Greci e il binomio bizantino luce-colore che libera la figura dalla tirannia dello spazio (lezione 7), si perviene a una definizione dell'individuo non come sostanza ma come rapporto emancipato dal limite, gradiente di potenza nell'ambito di una continua composizione di rapporti fra le affezioni del singolo modo e fra i singoli modi.
Nella lezione 8 Deleuze è per un attimo affascinato dalla proposta di Gueroult che intende il rapporto fra movimento e riposo (i due modi infiniti immediati che costituiscono ogni modo finito nell'attributo Estensione) quale «vibrazione», ma preferisce definire l'individuo quale rapporto differenziale specifico dei sotto-individui infinitamente piccoli che lo costituiscono - forse ha torto, alcuni neuroscienziati leggono in modo vibrazionale le attività neuronali e addirittura hanno identificato la coscienza con una determinata frequenza.
Di qui, nelle due ultime lezioni, Deleuze ritorna sul tema della conoscenza. Gli uomini sono composti di parti estese connesse fra di loro e con l'esterno in modo del tutto contingente: puoi nutrirti piacevolmente o avvelenarti, fare un incontro piacevole o essere punto da una zanzara. Le idee inadeguate, proprie del primo genere di conoscenza, si limitano a constatare quella casualità e costituiscono il primo strato dell'individualità.

Il culmine della beatitudine

Per fortuna possiamo accedere, grazie al secondo genere di conoscenza, alla scoperta della norma che contiene il criterio di composizione e decomposizione dei vari rapporti, la comprensione delle cause e della ragion d'essere di cose ed eventi. Passiamo a controllare i rapporti, come chi nuota domina e sfrutta le onde che travolgono l'inesperto, chi passivamente dipende dall'immaginazione. Un saper fare, dunque, non solo una conoscenza geometrica e matematica, mentre ogni categoria conoscitiva è anche un modo di esistenza. Tanto più questo vale per il culmine della beatitudine, la conoscenza di terzo genere per cui sentiamo e sperimentiamo di essere eterni. Accesso alla verità eterna dei rapporti, al regime dell'esistenza delle parti intensive che rende minoritaria e irrilevante la parte estesa imprigionata nella durata e destinata alla morte per usura e attrito con il mondo esterno. Unione mistica delle essenze che continuano a distinguersi fra di loro pur essendo contemporaneamente tutte intrinseche le une alle altre.



Liberazione - 28 dicembre 2007

Razionalisti non si nasce, si diventa Spinoza è tra noi. Parola di Deleuze

In libreria per Ombre Corte, e a cura di Aldo Pardi, "Cosa può un corpo?", le lezioni del filosofo francese sui testi spinoziani Una lettura dall'effetto terapeutico, capace di andare alla radice delle servitù che ancora oggi imprigionano menti e corpi
di Girolamo De Michele

Ci sono molte ragioni per regalarsi la lettura delle Lezioni su Spinoza di Gilles Deleuze, sino a ieri disponibili solo online in francese e adesso tradotte e curate col titolo Cosa può un corpo? per Ombre Corte (pp. 202, euro 18,50) da Aldo Pardi, autore di un densissimo saggio prefatorio, all'interno di una la felice congiuntura editoriale: sono da poco disponibili la prima traduzione integrale dei testi spinoziani (Baruch Spinoza Opere , Mondadori, Meridiani Classici dello Spirito, pp. 1885, 55 euro) e il primo dei due volumi che raccolgono tutti gli scritti brevi di Deleuze ( L'isola deserta e altri scritti. 1953-1974 , Einaudi, pp. 380, euro 24). Tre testi che, letti in contaminazione, evidenziano come nel pensiero di Gilles Deleuze si esprima oggi la forma di spinozismo più adeguata al tempo presente.
La prima fondamentale ragione è l'aspetto terapeutico che oggi riveste l'opera di Spinoza: in un'epoca caratterizzata dal governo politico delle passioni tristi, la sua lettura è liberatoria per la sua capacità di andare alla radice delle servitù che imprigionano le menti e i corpi. Ma attenzione: non si tratta di una fuga nell'intellettualismo, né di una riabilitazione dell'aspetto consolatorio della filosofia che lo stesso filosofo olandese disdegnava. La conoscenza dei rapporti tra mente e corpo è, per Spinoza come per Deleuze, sempre pratica: ciò che è in gioco è sempre un concreto incrociarsi e scontrarsi di rapporti di potere, affetti, costruzioni sociali. Lo stesso corpo individuale è una costruzione sociale, un progetto politico: la sua espressione (lo mette bene in luce Pardi nella Prefazione) e la sua interpretazioni sono impensabili senza la comprensione adeguata delle stabilizzazioni imposte dai dispositivi di assoggettamento e dalle forme di riproduzione del potere. La prassi spinoziana (degli spinozisti come del cittadino Baruch Spinoza) era (ed è) affermazione, nel pensiero come nella vita, di un'altra società, di uno scarto rispetto al grado di esistenza e di libertà concesso dal potere: «una società dove il diritto si potesse compiutamente esprimere come potenza collettiva» (Pardi, p. 31).
Ma la potenza del pensiero spinoziano comporta un rischio: che lo spinozismo, magari proprio nella sua versione deleuziana, scada a riproposizione di affermazioni filosofiche con valore di slogan a fronte della crisi dei movimenti e dell'attuale inadeguatezza delle loro prassi. Inadeguatezza che ha la sua radice nell'incapacità di uscire dall'autoreferenzialità, nella chiusura nei localismi e nei soggettivismi: nell'inadeguata capacità di raccordare le lotte e i movimenti locali, i loro spazi e luoghi. Moltitudine, immanenza, molteplicità rischiano così di diventare verbosi artifici buoni a coprire i buchi, le lacune, le fratture - e talvolta effettivamente si assiste al compiaciuto bearsi di simili flati vocis . Contro questa perversione dello spinozismo vale come antidoto quel Deleuze che non ha mai smesso, per tutta la sua vita, di affermare che non basta evocare l'immanenza: bisogna costruirla. Così come non basta invocare la razionalità o la socialità dell'essere umano, socialità e razionalità sono costruzioni. «Non si nasce esseri sociali. Nessuno nasce "socievole"» (p. 82), né si nasce razionali, lo si diventa: «Spinoza non pensa assolutamente come un razionalista - per i razionalisti esistono la ragione e le idee, e se ne avete una, le avete tutte: siete razionali. Spinoza pensa invece che si diviene razionali, o saggi, cosa che cambia del tutto il senso del concetto di ragione» (p. 59).
Divenire sociali e razionali è questione di incontri, e gli incontri sono questione di percezioni, adeguate o meno: per Spinoza la percezione è un problema politico, è forse il problema politico, dal quale tutto scaturisce. Ogni incontro è infatti una composizione che esprime il massimo grado di potenza possibile. Una cattiva, cioè inadeguata, percezione dei corpi, della società, dell'altro condurrà ad una cattiva composizione, esattamente come il veleno è un cattiva composizione per il mio corpo: stiamo parlando ancora di metafisica, stiamo facendo della fenomenologia, o stiamo parlando di analisi sociale, dunque di politica? E' del tutto evidente che questa distinzione non ha senso: il giudizio politico è espressione di una prassi, la quale esprime il massimo livello di composizione dei rapporti di cui posso essere capace a partire dall'adeguatezza o meno della mia comprensione degli elementi costituenti. E' per questo che l'etica di Spinoza non è un'etica del dovere, ma un'etica della potenza: «Spinoza non fa mai della morale, per la semplice ragione che non si chiede mai cosa si "deve" fare. Piuttosto, si interroga su cosa si è in grado di fare, sulla potenza» (p. 55). E sulla potenza Deleuze ci dà una lezione, la settima, che da sola vale l'intero libro, dove l'etica viene rifondata secondo potenza all'interno di un discorso sul limite percettivo e l'uso del colore nella pittura bizantina che sfocerà nei colori di El Greco, pittore molto amato da Deleuze. Soprattutto - ecco un'altra ragione per leggere questo libro - non ci si chiede mai "cosa posso sperare?": la speranza, come l'invidia, la paura, l'ambizione, è una passione triste. Non per caso non si incontra il tema della speranza in queste lezioni: la speranza è, per Spinoza, una fluttuazione dell'animo speculare alla paura, della quale viene creduta essere il rimedio. Dall' Etica al Trattato politico , Spinoza non ha incertezze nel collegare speranza e paura all'immagine, auspicata o temuta, di una cosa futura del cui accadere dubitiamo. Chi vive nella speranza o nel timore rinuncia a vivere la propria vita in favore o per timore di un'altra vita che non è, e che forse potrà essere. Con le parole di Nietzsche: non è un rimedio alla sofferenza, ma un prolungamento indefinito della sofferenza. Vincolare un altro alla promessa di un beneficio futuro è un modo per assoggettarne tanto il corpo quanto la mente, scrive Spinoza nel Trattato (II.10): costringerne l'anima a cercare di salvarsi piuttosto che insegnarle a vivere la vita. Il governo politico della tristezza non è altro che questo: vincolare la privazione di vita a una speranza, e questa a una «grande speranza che deve superare tutto il resto». Che tale speranza sia un Dio «che può proporci e donarci ciò che da soli non possiamo raggiungere» ( Enciclica Spe Salvi ), o che siano i dispositivi che ci vincolano alla rassegnata accettazione della nostra incapacità a costituirci liberamente al di fuori dei processi di assoggettamento, promettendoci la sicurezza in cambio dell'autodeterminazione: il risultato resta interno alla produzione sociale della paura, del timore, del bisogno di rassicurazione.
Essere spinoziani è una questione di stile: significa rifiutare questi mediocri pastori di anime e di corpi, queste menti frustrate dalle proprie catene che proiettano sul corpo sociale le proprie servitù. Significa scommettere sulle pratiche costituenti di liberazione piuttosto che sui predicatori di tristezza: «Eppure ci sono persone che la coltivano con assiduità... L' Etica è una denuncia radicale di tale atteggiamento - vedete quanto Spinoza sia distante dal giustificare anche minimamente la brama di potere: solo le persone frustrate pretendono il potere, per rivalsa. Per questo sono pericolose. Solo i frustrati costituiscono sistemi di potere basati sulla tristezza. Hanno bisogno della tristezza degli altri. Possono regnare solo facendoli schiavi, perché la schiavitù è precisamente il regime in cui la potenza diminuisce. Gli uomini di potere instaureranno sempre regimi basati sulla tristezza. Per capirci: "Fate penitenza!", oppure: "Odiate questo o quello!". Non avete nessuno da odiare? Odiate voi stessi! La cultura della tristezza, la tristezza come valore, tutte le frasi che dicono: "Per crescere bisogna soffrire", tutte queste cose per Spinoza sono abominevoli. Scrive un'etica proprio per dire: "Non è vero! Proprio per niente!"» (p. 115).





Tutti i diritti riservati. Copyright © 2005 ombre corte edizioni
Via Alessandro Poerio, 9 - 37124 Verona - Tel. e Fax 045 8301735