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Dall'operaio massa all'operaio sociale
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Intervista sull'operaismo
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il manifesto - 15 luglio 2007
L'esodo della soggettività alla vigilia del postfordismo
Riproposto da Ombre Corte «Dall'operaio-massa all'operaio sociale» di Toni Negri
di Gigi Roggiero
Sono pochi i libri capaci di descrivere un'epoca, meno ancora quelli che con la loro griglia di interpretazione rovesciano la prospettiva corrente. Uno di questi libri è Dall'operaio massa all'operaio sociale. Intervista sull'operaismo (a cura di Paolo Pozzi e Roberta Tommasini, pp. 155, euro 14) di Toni Negri, apparso nel 1979 per le edizioni Multhipla, riedito in questi giorni da Ombre Corte. Il libro analizza il passaggio e l'esplosione della vecchia composizione di classe, determinata dalle lotte degli anni Sessanta, con la completa socializzazione della produzione e l'emergere di nuove centralità operaie, non più limitate alla struttura di fabbrica. In questa transizione, l'operaismo di cui si ripercorrono nel libroorigine e percorsi, a partire dai Quaderni Rossi e Classe Operaia è morto. Lo sostiene in modo reciso Negri, non diversamente da Tronti, anche se opposte sono le conclusioni rispetto all'autonomia del politico. Lo stesso Negri, infatti, rivendica la continuità del metodo operaista dentro le esperienze di Potere Operaio, cioè la griglia interpretativa del meccanismo «attacco operaio, ristrutturazione capitalistica, riconfigurazione della composizione di classe». Crisi dell'operaismo, dunque, significa fine della centralità politica dell'operaio massa e apertura di una nuova potenza rivoluzionaria. L'operaio sociale è un soggetto di parte e, marxianamente, produttivo di plusvalore, dove il rifiuto del lavoro ha messo in crisi un rapporto salariale che diventa di puro sfruttamento. Qui va ricercata le genealogia del capitalismo cognitivo e del precariato.
La conservazione della «centralità operaia» negli anni '70, da parte del Partito Comunista, non significava semplice difesa dell'operaio massa. Era invece l'affermazione del Pci, in termini repressivi e di controllo, contro i movimenti e l'autonomia operaia. Lo spazio per il riformismo ha iniziato a chiudersi allora, di fronte a un bisogno di comunismo che fosse all'altezza della composizione di classe. Rimaneva il problema dell'organizzazione di ciò che si potrebbe chiamare «esodo», non solo, quindi, della rottura rivoluzionaria. Resta da chiederci se, in questo passaggio, il problema della composizione politica e dell'individuazione della gerarchia dei conflitti non iniziasse a porsi immediatamente dentro le nuove coordinate spazio-temporali della composizione di un lavoro vivo, non riducibile nella sintesi della rappresentanza politica e sindacale. Il che significa interrogare il rapporto tra classe e ciò che Negri definisce moltitudine. Si è tentato spesso in tempi recenti di edulcorare l'esperienza dell'operaismo, liberandola da un eccesso di anticipazione teorica e politica. Ma senza quell'eccesso, del metodo operaista non resterebbe nulla o, peggio, diventerebbe ciò che non è mai stato: un'eresia marxista. Già negli anni '70, la composizione del lavoro vivo, che nel libro Negri chiama operaio sociale, ha cominciato il suo esodo dalla sinistra. Chi legge in quelle esperienze una sconfitta senza appello, per seppellire con esse la lotta di classe e la sua autonomia, forse non ha fatto i conti con la potenza del presente.
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