Sandro Mezzadra
Diritto di fuga
Migrazioni, cittadinanza, globalizzazione
 
Liberazione - 17 marzo 2007

"Diritto di fuga", i migranti al centro del conflitto

di Anna Simone

Nella caldissima estate del 2003 la rete No-Border decise di organizzare a Frassanito, una nota località nel Salento, un campeggio di lotta e di riflessione attorno al tema dei confini. Da quell'esperienza nacquero due eventi: la nascita del "Frassanito network", che avrebbe tenuto insieme militanti e ricercatori di ogni paese dell'Unione Europea, ed un'azione di lotta contro la roulottopoli (che all'epoca funzionava come CPT) di Bari-Palese. Un "mostro" di inciviltà situato nel bel mezzo della zona aereoportuale e militare della città. Tra blocchi stradali, reti tagliate, compagni fermati nella roulottopoli, polizia, carabinieri, fumogeni e digos, un gruppo di migranti riuscì a fuggire dal centro di detenzione. Per noi tutti, lì davanti, quei migranti stavano esercitando un diritto di libertà o meglio un "diritto di fuga" dai confini, dalle reti, dai fili spinati e da quella zona oscura ed ibrida della detenzione amministrativa. Ma "diritto di fuga" era ed è anche il titolo di un fortunato libro di Sandro Mezzadra che, uscito nel 2001, subito dopo l'epopea dell'assurdo verificatasi a Genova e l'attacco alle Torri Gemelle, aveva accompagnato molte assemblee del Tavolo Migranti dei Social Forum, aveva fornito di nuove parole d'ordine il movimento, all'epoca felicemente articolato e ricco di idee, desideri, proiezioni. Anni, insomma, che sembravano andare solo in una direzione: quella della critica radicale allo stato di cose presenti, al processo di globalizzazione in primis. Anni in cui la distinzione tra il lavoro "scientifico" e politico non aveva alcuna ragion d'essere, anni di costruzione di reti, amicizie, relazioni "comuni" attorno alla nascita di riviste e di nuovi saperi. Quell'articolazione intensa e viva che ci faceva tornare a casa pensando già al treno da prendere la settimana successiva si è andata via via riducendo nel corso di questi ultimi anni.
Ma come sempre accade quando finisce un grande amore, travolgente e passionale, si riparte dai "resti", da quello che rimane avendo la sana consapevolezza di ritracciare nuove vie senza poter azzerare le precedenti. "Diritto di fuga" di Sandro Mezzadra (Ombre Corte, pp. 218, euro 18), nel frattempo tradotto in Spagna, dopo un breve periodo di assenza dalle librerie, è ritornato in una nuova edizione rivista e ampliata, non solo da una prefazione che ritraccia le ultime linee della genealogia del presente tematizzando anche le recezioni al testo da parte di altri autori, ma anche da una nuovissima raccolta di scritti e conversazioni (con Brett Neilson, Etienne Balibar ed il Colectivo Situaciones) che rafforzano la seconda parte del volume. I punti di forza del fortunato volume di Mezzadra sono tanti nell'ormai variegata letteratura sulle migrazioni, i confini e la cittadinanza. Intanto si sgombera il campo d'indagine dalle letture pietistiche e solidaristiche del migrante-vittima che hanno avuto e hanno ancora come risposta politica il fenomeno della "gestione del sociale" da parte del terzo settore e del cosiddetto capitalismo pio o post-filantropico; in secondo luogo si tracciano micro-genealogie storiche dei processi di mobilità della forza-lavoro migrante tra la fine dell'800 e parte del '900 che denotano l'atto del migrare come configurazione di soggettività singolari, eccedenti e autonome; in terzo luogo si mette in crisi il sistema "multiculturalista" che, come tutti sappiamo, si avvale della nozione di "riconoscimento" dell'identità culturale altrui per cristallizzarla all'interno della geometria stantìa dei diritti differenzianti e differenziali; in quarto luogo si tematizza la cittadinanza intendendo con ciò un processo di negoziazione dinamica, permanente e non uno status oggettivato e soggettivato dall'appartenenza ad uno Stato-nazione, ai suoi confini territoriali e al suo "popolo" caratterizzato da un ethnos specifico; in quinto e ultimo luogo si tenta un costante parallelismo tra i movimenti migratori, il loro bisogno di "autonomia" e di soggettivazione ed il movimento femminista da sempre caratterizzato dall'esercizio della "sottrazione" da tutti gli ordini simbolici e materiali del patriarcato. Un'operazione, quest'ultima, che vale la pena sottolineare non foss'altro perché assai rara nel contesto di riferimento politico a cui Mezzadra afferisce: l'operaismo prima ed il post-operaismo poi.
Lo "stile" del testo -come ama definirlo lo stesso autore- è, a suo modo, unico. Anche se tra le righe del volume è possibile scorgere qualche piccolo segno di adesione incondizionata a certa "epica" rivoluzionaria (che preferisce pensare il sovvertimento dei contesti socio-politici slegandoli dalla condizione reale degli individui in carne ed ossa con i loro saperi parziali ma, allo stesso tempo, spiazzanti) non è mai del tutto "liscio". L'analisi dei singoli temi affrontati da Mezzadra è sempre "sofferta", procede in avanti ma senza mai divenire "spensierata", fugge da ogni retorica dei diritti umani, dalla teoria social-democratica, dalle teorie della "giustizia", da certo marxismo hold school ma, al contempo, registra tutte le perdite e tutte le grandi sconfitte della storia tenendone conto fino alla fine. La sua è una scrittura "ambivalente", fatta di slanci ma anche di punti di crisi tra le cui pieghe vale sempre la pena soffermarsi. Il migrante non fugge per avallare il nomadismo post-moderno come ultima conquista della libertà a geometria variabile, ma fugge da un contesto storico fatto di colonialismi e de-localizzazione del sistema di produzione capitalistico, costruito sull'impossibilità stessa della riproduzione sociale come orizzonte di rigenerazione del vivente e dei mondi umani. Rileggendo dopo alcuni anni "Diritto di fuga" in questa nuova veste editoriale mi sono chiesta come mai tra i capitoli aggiunti non ve ne sia qualcuno sugli ultimi corsi di Michel Foucault appena tradotti in Italiano, in particolare "Nascita della biopolitica" e "Sicurezza, territorio, popolazione". Mezzadra è interessato al metodo genealogico foucaultiano ma sembra utilizzarlo solo nella prospettiva di una "genealogia dell'altra globalizzazione" tralasciando tutto l'apparato di decostruzione della norma e dei saperi-poteri che, invece, hanno raffigurato il focus tematico del filosofo francese. Da questo punto di vista "Diritto di fuga" resta un libro fondamentale per chi vuole fare un salto qualitativo spostando l'analisi marxiana di stampo operaista sul piano di un'ontologia del presente attraversata dai "cultural studies" e dai "post-colonial studies", ma anche un libro da ridiscutere assieme a chi non intende separare i movimenti di contro-condotta e di contestazione della norma dall'analisi del sistema capitalistico. E' vero, Foucault avrebbe letto il movimento dei migranti assieme a quello delle sex-workers, dei movimenti GLBTQ, delle cosiddette "altre soggettività rivoluzionarie" afferendo solo alla genealogia del potere e facendo solo qualche cenno all'opera di Carlo Marx. E' altresì vero, però, che fare uno sforzo per tenere assieme i movimenti dei migranti con il movimento dei precari -così come fa Mezzadra nella nuova prefazione al testo- non può prescindere da un'analisi a tutto tondo di quel che oggi definiamo come "soggettività" o come "processo di soggettivazione". Se l'ottica è quella delle pratiche di libertà e dei movimenti anti-identitari, allora vorrà dire che vale la pena ridiscutere anche le nuove forme di "fuga" del post-femminismo e di tutti i movimenti che praticano la "diserzione" da ogni produzione di confine. In fondo, come ricorda l'autore, anche la fuga di Thelma e Louise ha una sua ragion d'essere, anche se lo sfondo non era "solo" il sistema capitalistico.



il manifesto - 4 aprile 2007

Sul terreno strategico di una nuova mobilità

Si incentra sulle migrazioni, lette come movimento sociale caratterizzato da uno specifico grado di autonomia, la nuova edizione di "Diritto di fuga" di Sandro Mezzadra per Ombre Corte

di Maurizio Ricciardi

Al movimento che nel 2001 calcava sicuro la scena del mondo globale, Diritto di fuga di Sandro Mezzadra, uscito per la prima volta proprio in quell'anno incredibile, ha fornito almeno alcune delle parole che sarebbero state usate per affrontare il tema delle migrazioni, tanto che il titolo del volume è diventato una sorta di slogan per affermare la libertà di movimento dei migranti. Ben diversa, naturalmente, è la situazione in cui oggi il volume viene ripubblicato in una nuova edizione (Diritto di fuga. Migrazioni, cittadinanza, globalizzazione, Verona, Ombre corte, pp. 218, euro 18), e dunque non appare sorprendente che anche il libro, nonostante il titolo invariato, sia sostanzialmente differente: per approfondire i temi introdotti sei anni fa, Mezzadra ha infatti introdotto un'ampia mole di materiali che in diversi casi aprono nuove prospettive. Né è un caso che molti di questi contributi prendano forma di dialoghi con studiosi e attivisti di diverse nazionalità, da un lato dunque rimarcando la necessità di un confronto sulla stessa scala globale dei problemi che vengono affrontati, dall'altro lato evidenziando il carattere intrinsecamente collettivo dell'opera.
A colpire nel segno, al tempo della prima uscita del libro era stata la presa d'atto decisa e storicamente circostanziata che le migrazioni non sono un fenomeno nuovo né sono meccanicamente dovute all'iniziativa capitalistica. Affermazione pratica di una capacità di sottrarsi a condizioni intollerabili (non tanto o non solo per le privazioni che le caratterizzano, ma perché impediscono materialmente di accedere a progetti di vita più liberi), il "diritto di fuga" è un'appropriazione individuale e collettiva di futuro non facile né priva di contraddizioni, che, se non può essere contrastata costruendo nuove barriere per impedire la mobilità, non può nemmeno avere come risposta un immaginario risarcimento per la depredazione originaria operata dal colonialismo e dagli imperialismi del Novecento. Le migrazioni non sono quindi un'emergenza del mondo globalizzato da sanare in qualche modo. Il segno politicamente rilevante, da indagare con la massima attenzione scientifica, non è dato dalle distorsioni che producono le migrazioni, ma dal fatto che esse sono una presenza strutturale, da considerarsi come causa e non come effetto. In questo senso, anche alla luce dei diversi orientamenti - dalla critica postcoloniale agli studi culturali - che costituiscono il tessuto connettivo dei testi che la compongono, la seconda edizione di Diritto di fuga introduce e sviluppa una nuova ipotesi di ricerca: le migrazioni sono un movimento sociale caratterizzato da uno specifico grado di autonomia. Le migrazioni si presentano cioè come un insieme di comportamenti individuali e collettivi che non coincidono immediatamente con il rapporto di società nel quale pure sorgono e con il quale intrattengono una relazione strutturale. Nel caso specifico dei migranti l'esperienza di una mobilità a più dimensioni mette in discussione le modalità di definizione dei confini interni ed esterni, così come esse si stanno determinando - e vengono imposte - nelle trasformazioni crepuscolari della sovranità. Il multiculturalismo e molta letteratura sociologica, invece, colgono soprattutto le differenze delle abitudini culturali, indicandole di volta in volta come pericolo o come opportunità, oppure scegliendo quella "via di mezzo" che dovrebbe permettere la tolleranza delle differenze più stridenti.
Articolare la comprensione delle migrazioni attraverso il concetto politico di "movimento sociale" significa al contrario focalizzare l'attenzione sulle "ambivalenze" di cui esse vivono e sulle sconnessioni che esse introducono nell'ordine simbolico e materiale della società. "La tesi dell'autonomia delle migrazioni finisce così per allenare lo sguardo su questi elementi di ambivalenza, a leggere nell'esperienza migratoria i segni di una molteplicità di conflitti che si producono sul terreno strategico della mobilità (di una mobilità che è prima di tutto mobilità del lavoro, ma che chiama in causa un insieme di fattori che non si lasciano facilmente cogliere con gli strumenti dell'analisi economica)". Da questa impostazione derivano due linee di tensione, l'una legata allo specifico carattere di forza lavoro dei migranti, l'altra alle trasformazioni della cittadinanza, linee che nell'esistenza quotidiana sono tanto più strettamente intrecciate quanto più tendono irrimediabilmente a divergere.
Quotidianamente, sia pure sotto forme diverse, i migranti sperimentano come il lavoro (ci sia o non ci sia un contratto che lo obbliga e lo "protegge") o la nazionalità non siano un titolo sufficiente per accedere ai diritti che la cittadinanza "potrebbe" riconoscere. Il fatto è che i migranti attraversano, si stabiliscono, ripartono da spazi che sono caratterizzati da un pieno di diritto, ma nei quali i diritti o non esistono o vengono depotenziati, sottratti, negati. Se la cittadinanza è in primo luogo il riconoscimento di una collocazione e di una potenzialità, essa appare vieppiù sconnessa dalla produzione concreta della società. Eppure essa è il luogo di una lotta costante da parte dei migranti, non solo per non essere relegati in condizioni di minorità sociale e politica, ma anche per non diventare gli attori di un'eterna ripetizione che promette la cittadinanza come premio per il sacrificio del lavoro. Una volta di più appare così limitativo cogliere i migranti prioritariamente nella loro condizione di privazione, anche quando essa è violenta e tenebrosa come nei centri di permanenza temporanea: proprio contro queste riduzioni va fatto valere il nucleo forte attorno a cui ancora felicemente si articola l'affermazione del "diritto di fuga".



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