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America oggi
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Abu Ghraib e altre oscenità
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Liberazione - 8 giugno 2005
Slavoj Zizek. Il filosofo, la guerra e l'oscenità del potere
di GUIDO CALDIRON
«Personalmente, la prima volta che ho visto la foto tristemente famosa del soldato nudo con un cappuccio nero in testa e dei cavi elettrici attaccati agli arti - per di più in piedi su una sedia con una posa teatrale ridicola -, ho pensato che si trattasse di un'istantanea scattata a qualche recente art performance di Manhattan. Il costume e la posizione dei prigionieri suggeriscono una messinscena di tipo teatrale, una specie di tableau vivant che non può non evocare tutta una serie di art performance americana, il "teatro della crudeltà", le foto di Mapplethorpe, le bizzarre scene dei film di David Linch...». Il sociologo e filosofo sloveno Slavoj Zizek non è nuovo ad analisi puntuali della realtà contemporanea, svolte il più delle volte a partire dalla ricerca di una demistificazione dei codici culturali che ammantano le nuove forme di barbarie, come la "guerra di civiltà" o i vari volti dello sfruttamento postmoderno. Così, di fronte alle terribili immagini provenienti dal carcere di Abu Ghraib, Zizek propone una sua inedita lettura della vicenda. «A chiunque conosca anche solo minimamente lo stile di vita americano contemporaneo - sostiene il docente dell'Università di Lubiana -, queste foto non possono non evocare i vari aspetti osceni del lato nascosto della cultura popolare statunitense, per esempio i rituali iniziatici di tortura e di umiliazione a cui ci si deve sottoporre per essere accettati da un circolo esclusivo». «C'è quindi in definitiva un elemento estremamente cinico nel sottoporre dei prigionieri arabi a dei rituali iniziatici tipicamente americani - conclude Zizek -: vuoi essere uno di noi? Ottimo, eccoti un assaggio del meglio della nostra cultura...».
L'esame dello scempio di Abu Ghraib è contenuto in America oggi, il volume di Zizek pubblicato recentemente da Ombre Corte (pp. 144, euro 12,50) che fa seguito a Iraq, uscito alla fine dello scorso anno per Raffaello Cortina Editore (pp. 184, euro 17,00). I due volumi raccolgono, insieme, le riflessioni che Zizek va costruendo da tempo intorno alla vicenda irachena e alla deriva autoritaria che accompagna negli Stati Uniti il dispiegarsi di quel conflitto. Proprio nelle pagine di Iraq, infatti, l'intellettuale sloveno indica uno dei nessi fondamentali tra la guerra, esterna, e la repressione, interna, che caratterizzano oggi l'indole dell'amministrazione americana. «Dopo l'11 settembre - spiega Zizek -, gli Stati Uniti, fondamentalmente, hanno cancellato il resto del mondo come partner affidabile. L'obiettivo finale non è più l'utopia di Fukuyama di far espandere universalmente la democrazia liberale, bensì la trasformazione degli Stati Uniti nella "Fortezza America", una superpotenza solitaria isolata dal resto del mondo che protegge i propri interessi economici vitali e difende la propria integrità attraverso la potenza militare». Non solo. «L'attuale politica statunitense - aggiunge il filosofo -, nella sua struttura intrinseca, è una specie di equivalente politico della pedofilia cattolica. Il problema di questo nuovo vigore morale non è che la moralità viene sfruttata e manipolata, ma che viene chiamata in causa direttamente; il problema dell'appello alla democrazia non è che semplice ipocrisia e manipolazione esterna, ma chiama in causa direttamente, facendovi riferimento, aspirazioni democratiche "sincere"».
Però, come spiega Lorenzo Chiesa, a cui si deve la traduzione e la cura di America oggi, «Zizek ci introduce con incursioni "corsare" e complici all'oscenità di un'America vissuta dall'interno, a tutte le sue contraddizioni ma anche ai suoi siti potenziali di emancipazione radicale; il filosofo conosce troppo bene gli Stati Uniti per commettere l'errore, arrogante e provinciale, di tanta critica di sinistra, di confondere l'America con la condanna inevitabile dell'americanismo europeo d'importazione».
Così è dentro gli Usa, secondo una lettura della società che riguarda però il mondo intero, che Zizek coglie i sintomi possibili di una resistenza alla barbarie e di una nuova offensiva trasformatrice dell'esistente. «Gli abitanti delle baraccopoli sono la controparte di un'altra nuova classe emergente - spiega Zizek in America oggi -, la cosiddetta "classe simbolica" (manager, giornalisti e addetti alle pubbliche relazioni, accademici, artisti, ecc.) anch'essa sradicata e che si percepisce come direttamente universale». «E' forse questo il nuovo asse della lotta di classe - conclude il filosofo, interrogando se stesso e implicitamente anche noi -, o si dà forse il caso che la classe simbolica sia scissa al proprio interno, di modo che si potrebbe piuttosto scommettere sulla formazione futura di una coalizione tra gli abitanti delle baraccopoli e la parte "progressista" della classe simbolica?».
Il manifesto - 23/06/2005
Spiazzati dalla pratica oscena dell'utopia
di SANDRO CHIGNOLA
La democrazia ridotta a procedura, il capitalismo globale delle merci, lo scontro di civiltà, l'universalismo imperiale da esportazione, le retoriche securitarie contro l'immigrazione, le torture di Abu Ghraib. Smontaggio e rimontaggio dell'immaginario del nostro tempo indagato nelle tre raccolte di saggi e interventi di Slavoj Zizek: «Iraq», per Raffaello Cortina, «America oggi. Abu Ghraib e altre oscenità» per ombre corte, «Distanza di sicurezza. Cronache dal mondo rimosso» per manifestolibri
Di Slavoj Zizek i lettori del manifesto conoscono lo stile filosofico. La sua straordinaria capacità di far proliferare il discorso attraversando materiali eterogenei e apparentemente privi di relazione: il cinema hollywoodiano, la programmazione televisiva globale, la letteratura, l'ideologia contemporanea per come essa si rende percepibile nei lapsus, e quindi negli effetti di verità, prodotti dagli scarti e dai «buchi» delle retoriche politiche, la filosofia classica, la psicoanalisi. Attraversamenti e riattraversamenti che organizzano un montaggio - tanto più percepibile nelle raccolte di saggi e articoli che qui presentiamo, nelle quali gli stessi materiali tornano di continuo a inflazionare i profili di una produzione letteralmente debordante - che insegue la verità sin là dove soltanto è dato trovarla: ai margini, sopra e sotto, di lato, mai al centro della scena dell'immaginario generale del nostro tempo. Il fatto è che ciò che viene detto, come sempre, non dice. Nella lussureggiante produzione simbolica e linguistica contemporanea - la fine della storia che avrebbe dovuto seguire il crollo del muro di Berlino, l'icona dello scontro di civiltà, l'universalismo imperiale della democrazia da esportazione, il cinismo politico teocon e il ragionevole riformismo delle coalizioni arcobaleno, la caricatura di un nemico fondamentalista senza volto - è all'opera un dispositivo ideologico potentissimo, che rappresenta la matrice del discorso, ne occupa il baricentro, e schizza la verità di lato. Ne deriva, che la lacerazione dell'involucro della realtà - di quella che riteniamo essere la realtà e che invece rappresenta l'immaginario in cui nuotiamo e di cui siamo preda, almeno sinché non comprendiamo di essere totalmente identificati a esso, come Zizek sostiene in quello che resta uno dei suoi testi più importanti, L'epidemia dell'immaginario (Meltemi, 2004) - non può determinarsi che a partire dal pieno riconoscimento dell'assoluta appartenenza del soggetto al presente, al suo principio di realtà, e alla produzione simbolica che ne sostiene e allarga i domini. Come per Lacan, il soggetto che osserva il quadro non è esterno a esso, ma fa parte di quello che vede nella veste del punto cieco in cui la rappresentazione affonda. Ne derivano una scelta di metodo e una filosofia politica. Da un lato, la necessità di attraversare l'intera produzione simbolica in cui si esprime l'immaginario del capitalismo globale come attraversamento della scena in cui si determina il cortocircuito tra la posizione del soggetto e il suo assegnarsi una libertà solo apparente. Dall'altro, il congedo dal gesto classico della critica dell'ideologia - perché non si dà una posizione di esteriorità rispetto all'immaginario che possa offrirsi al soggetto come il punto di presa autentico sulla realtà - e il suo superamento in direzione di una politica leninista della verità che assume la parzialità del soggetto, il suo essere/prendere parte, come ciò che squilibra e tiene permanentemente in tensione il quadro del reale riaprendolo oltre di sé. L'immaginario contemporaneo congela la libertà di scelta, facendola apparire come una libertà tra opzioni che, anche se radicalmente alternative, hanno il pregio di non mettere mai in discussione il quadro soggiacente alla loro mutua esclusività: l'opzione teocon e quella riformista, ulivista-blairiana, rappresentano modelli diversi e tuttavia sostengono politiche che non mettono in discussione, per eccesso di supposto realismo, il sistema di rapporti e regole del capitalismo globale, che continua a produrre minacce e rischi che pretendono entrambe (con la guerra permanente o gli aiuti al terzo mondo) di evitare. E tuttavia lascia apparire la libertà di scelta, il gioco formale delle opzioni in cui il nemico diventa competitor e la più oscena delle posizioni accettabile e legittima nel frame di una discussione razionale da condursi civilmente, come ciò che è irrinunciabilmente da tutelare, anche al prezzo di disciplinare il riottoso con i bombardamenti intelligenti. Ci si può dunque stupire, se il significante-padrone della democrazia può essere disvelato nel più falso dei talk show prima ancora che nella filosofia liberal di Habermas, la sua verità nei sorrisi dei torturatori di Abu Ghraib, autentico fuoco, luogo cruciale, delle fotografie dell'orrore, da non confondersi coi corpi martoriati dei «terroristi» iracheni? Le tre raccolte di Slavoj Zizek ("Iraq", Raffaello Cortina; "America oggi. Abu Ghraib e altre oscenità", ombre corte; "Distanza di sicurezza. Cronache del mondo rimosso", manifestolibri), ruotano ossessivamente attorno a questi temi. Prendiamo le retoriche securitarie sull'immigrazione. Le oscenità nazi-leghiste di Varese, la caccia allo straniero tanto velocemente metabolizzata dal nostro sistema dell'informazione, sono ciò che mette a nudo una dialettica fondamentale, che Zizek analizza modulandola sul caso di Le Pen. Le Pen - così come qualche nostro ministro in camicia verde - è una figura perfetta per il disprezzo. Rozzo, grossolano, ignorante. Il populismo di destra che egli esprime argomenta in maniera fanatica contro l'immigrazione identificandola con la minaccia dell'epoca globale. Il clandestino ruba il lavoro, mette a rischio l'identità culturale europea, è un criminale in potenza, inassimilabile al nostro universale. Tuttavia, il discorso liberaldemocratico che giudica inaccettabile quella posizione, si lascia incapsulare al suo registro discorsivo nella misura in cui ne assume il valore sintomatico. La «chiusura» di Schengenland all'immigrazione extraeuropea (i confini di Schengen sono «la verità della globalizzazione», scrive Zizek), appare questione irrinunciabile anche al riformismo di governo, che accetta che l'agenda politica sia dettata dalle questioni sollevate dall'estrema destra. Il compito che la sinistra si assume è quello di fare meglio, in modo più soft e asettico, quello che la destra va facendo in tema di smantellamento dei diritti, ristrutturazione del mercato del lavoro, lotta all'immigrazione clandestina e alla criminalità; il compito di organizzare in termini di maggiore efficienza la stessa «guerra al terrorismo». La sconfitta della destra sul piano politico - almeno nei suoi casi limite, quelli che sono relegati ai margini della sfera pubblica - viene così a coincidere con la sua vittoria assoluta sul piano linguistico e dell'immaginario: perché il quadro delle regole del discorso, la soglia stessa delle argomentazioni, avrà introiettato il codice che quella posizione ha proposto per prima nella sua forma più cruda e inaccettabile. La democrazia si sta avviando a essere la triste parodia di sé stessa. E' questa l'affermazione che va trattenuta nel diluvio della prosa zizekiana. E non solo per l'essere progressivamente diventata il nome vuoto di una riduzione procedurale della politica. La democrazia è il gioco di posizioni contraddittorie, la cui opposizione binaria tende alla neutralizzazione reciproca e alla «chiusura» del perimetro di regole del discorso che rende possibile il loro confronto. Contro questa polarizzazione/neutralizzazione delle posizioni (civiltà vs barbarie; società aperta vs totalitarismo; fascismo vs comunismo; libertà vs fondamentalismo), che assume un immaginario comune, una produzione simbolica condivisa che rende traducibili e quindi reciprocamente compossibili le opposte argomentazioni, come il presupposto per il loro, anche apparentemente ruvido, confrontarsi, Zizek opera una mossa esplicitamente althusseriana. Si tratta di comprendere come la lotta di classe determini uno scarto formale decisivo che sovradetetermina come universale concreto l'antagonismo lineare delle posizioni ideologiche. Uno scontro di posizioni acquista il suo significato solo se compreso in relazione alla lotta di classe rispetto alla quale si articola. E' questo che permette di comprendere come il razzismo esplicito sia sentimento della working class o il femminismo possa anche essere uno dei modi in cui le classi alto-borghesi cittadine riaffermano il proprio potere sulle classi deboli «inconsapevoli, intolleranti e patriarcali» dettando il mood del confronto dell'Occidente con il mondo postcoloniale, ad esempio. E' la riaffermazione della lotta di classe come terzo elemento di una contrapposizione ideologica solo apparentemente binaria, ciò che permette a Zizek di pensare la democrazia oltre la sua parodistica riduzione procedurale. La democrazia in quanto ideologia funziona come spazio di un'alternativa virtuale: la prospettiva reale di un cambiamento del potere - quella prospettiva che l'immaginario ideologico conserva come apertura solo apparente, «falsa», rispetto alla «chiusura» simbolica del possibile - è esattamente l'illusione che ci fa sopportare i rapporti di potere esistenti. E' questo costante richiamo a un cambiamento possibile a garantire che nulla cambi davvero. Occorre praticare l'utopia, avendo il coraggio di assegnare alla propria posizione la qualità di un gesto etico intrattabile che scardini le coordinate del possibile. Si tratta di ristabilire una «giusta distanza» con l'altro che smantelli la gelida tolleranza liberale che intima di accettarlo solo tenendone a «distanza di sicurezza» l'irriducibile alterità, quella che lo fa diverso da noi, molesto e inquietante. E' questa la posizione di Zizek che spiazza l'ordine del discorso e che ne eccede i limiti accettando di confrontarsi col supplemento osceno del potere globale, con la violenza, la morte, la distruzione che descrivono non l'eccezione, ma la norma del funzionamento delle istituzioni della governance globale. Allora, le torture di Abu Ghraib possono essere descritti per quello che sono: non solo violenza omicida su corpi inermi, ma anche autentici riti di iniziazione - sinistramente simili a quelli in uso nei campus Usa - alla democrazia occidentale e ai suoi «valori». E le baraccopoli e gli slum dei sud del mondo, enunciati come il sito di radicamento di un possibile che, per essere tale, deve liberarsi come istanza di un ordine di realtà irriducibile e totalmente Altro rispetto a quanto siamo disposti ad accettare come ragionevole o realistico. La politica deve aprirsi all'impossibile. Al gesto di spiazzamento che deriva dal rendersi conto che tutto il resto, ciò che appare fattibile, ragionevole alternativa o lucido disincanto, sta dal lato di una semplice amministrazione delle cose che non può che accelerare la catastrofe. Ed è forse il più autentico limite di Zizek non accettare di mettersi in gioco sino in fondo dichiarando il modo in cui intenda prendere parte alle pur frammentarie dinamiche di un movimento globale che c'è e che eccede la sua rappresentazione maschia, occidentale e bianca, che Zizek può facilmente permettersi di non prendere troppo sul serio.
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