Enzo Traverso
Il passato: istruzioni per l'uso
Storia, memoria, politica
 
La stampa - Tuttolibri 20/10/2006

Ossessionati dalla memoria tra riti asettici e ridondanti

di Elena Loewenthal

E’ delicato il mestiere dello storico, in bilico fra due condizioni difficili. Se il tempo della sua indagine è remoto le tracce si disfano, vanno seguite con certosina pazienza e a volte coraggio. Evitando l'invenzione, lo storico si trova suo malgrado a immaginare.
Se invece egli lavora su un'epoca quasi a portata di mano, allora il mestiere è ancor più complicato, vista la sfida dell'obiettività. Entrare dentro una storia significa, in casi come questi, finire per parteciparvi, nel bene e nel male. E forse non è nemmeno detto che la vocazione dello storico sia l'obiettività. Forse, quando una storia chiama in causa - tanto lo studioso quanto il semplice lettore - è giusto rispondere: «E' spesso molto difficile, per gli storici che lavorano sulle fonti orali, trovare il giusto equilibrio tra empatia e distanza, tra riconoscimento delle singolarità e messa in prospettiva generale», scrive Enzo Traverso in Il passato: istruzioni per l'uso, una raccolta di saggi appena pubblicata dall' editore «ombre corte».
Questo dilemma bene si attaglia anche a un altro testo, intitolato Il pellegrino della libertà. Saggi e racconti: sono scritti del grande intellettuale polacco Gustaw Herling, esule e poi cittadino di Napoli, curati da Marta Herling e pubblicati come di consueto da «L'ancora del Mediterraneo» (pp. 139, €13,50). La scrittura di Herling, così come la sua esperienza di vita, è contraddistinta da una lucidità mai distaccata. Più che mai quando scrive dei suoi ritorni - temporanei - in Polonia, molti anni dopo la guerra. Testimone dei totalitarismi del Ventesimo secolo, Herling ne è anche un attento interprete.
A quel tormentato Ventesimo secolo cui siamo ancora tutti, nostro malgrado, avvinti (è come se, nonostante tutto, si faticasse a lasciarlo: ci sentiamo dentro e non dopo di esso), Traverso dedica le sue riflessioni sul senso della memoria. Soprattutto, sull'ossessione della memoria. Un'ossessione celebrativa cui lo storico, accantonata una presunta distanza obiettiva, dedica pagine molto intense. Questa ossessione è infatti un'evidenza incontrovertibile: da qualche anno a questa parte la memoria collettiva è chiamata in causa continuamente da rituali pubblici, cerimonie, campagne scolastiche. Con una ripetitività che, nel caso della Shoah, finisce per svuotare tutto di senso. Il che è ancora più assurdo, perché in fondo il dato più tremendo di tutta l'esperienza storica dello sterminio è proprio la sua assenza di senso. Certamente, «la memoria, sia individuale che collettiva, è sempre una visione del passato filtrato attraverso il presente»: ma questo presente sembra ansioso di sgravarsi della memoria attraverso rituali asettici, concepiti più per mettere a posto la propria coscienza (se non altro in termini educativi: e questo spiega forse la abbondante presenza della Shoah nelle celebrazioni scolastiche) che per chiamarla in causa. Come dovrebbe accadere di fronte a un passato così problematico.
La ricetta, certo, non è l'oblio. Ma nemmeno la ridondanza. Forse la soluzione sta in iniziative come Rivoli 1940 - 1945. Luoghi e percorsi della memoria a cura di Bruno Maida, pubblicato dalla Città di Rivoli (in provincia di Torino): un libro di testi e fotografie che racconta la città in quegli anni, strada per strada. Una microstoria che riaffiora sul terreno. Anzi, è come se fosse sempre rimasta lì, a farsi ascoltare.



Zapruder - 13, 2007

recensione di Elena Mazzini

In un illuminante articolo apparso su "Parolechiave" nel 1995, eloquentemente intitolato Un eccesso di memoria? Riflessioni sulla storia, la malinconia e la negazione, lo storico Charles Maier osservava che "importanti musei per commemorare l'Olocausto sono sorti in tante città americane. La motivazione della loro costruzione è la conseguenza della memoria e solo secondariamente dell'attività storica. Lo scopo manifesto dei musei dell'Olocausto è di impartire lezioni sull'Olocausto. Ma quale lezione?". La domanda restava aperta, come ogni quesito storico e non ideologico, perché il tempo della ricerca storica è un tempo lungo, fatto di salti in avanti e passi indietro, di interruzioni, arresti e riprese, che, in ogni caso, esclude formule semplificatorie e ricette interpretative all'insegna di vuote parole d'ordine: si tratta, cioè, del tempo della sospensione del giudizio e della formazione del dubbio. Se la storia non è solo memoria, spettacolarizzazione della memoria, ma anche gesto politico, invito alla riflessione e ricerca di senso, per leggere il libro di Traverso si potrà partire dall'epigrafe posta all'inizio del libro che recita una celebre frase di Antonio Gramsci: "Ogni storia è sempre contemporanea, cioè politica". Il sottotitolo fa eco a questo pensiero chiamando in causa le tre categorie concettuali che Traverso pone al centro della sua analisi: storia, memoria, politica. Storia della memoria, memoria della storia, o politica della storia e della memoria? Non sono, queste, domande oziose o retoriche, ma servono semmai a mettere in crisi indirizzi politici sempre più vicini a fare della storia e/o della memoria un generico quanto liturgico uso pubblico di narrazioni identitarie piegate alla legittimazione di culture politiche dominanti. Distinguendo con efficacia le differenti dimensioni temporali e concettuali in cui trovano cittadinanza e voce storia e memoria - il richiamo alla distinzione benjaminiana fra l'"esperienza trasmessa", ovvero la storia, e l'"esperienza vissuta", ovvero la memoria, è inserito non a caso nell'introduzione (p. 11)- l'autore si addentra all'interno di questioni relative al confronto, conflittuale e per certi versi irrisolto, fra i due termini di quella coppia antinomica richiamata nel titolo del primo capitolo, Storia e memoria: una coppia antinomica? (pp. 17-39). Storia e memoria sono figlie del passato e come tali compartecipano a un medesimo sforzo di rappresentare ciò che è stato in un'ottica di recupero di quel che è stato e che continua ad essere attraverso un'operazione di testimonianza presente. Come Traverso ribadisce con forza, rivelando una rara capacità di riferire gli ampi dibattiti storiografici sviluppatisi all'estero come in Italia intorno a questo tema, storia e memoria percorrono sentieri separati là dove l'uso politico nella sua deriva ideologica dell'una o dell'altra declina il confronto fra due diverse metodologie culturali in un conflitto funzionale alla sterilizzazione della conoscenza storica.
Questo è il momento nodale di cui l'autore si vuole interessare e che affronta nel secondo capitolo, foucaultianamente intitolato Il tempo e la forza (pp. 40-62): l'incontro, in una diversità reciproca, che non impone maiuscole (Storia e Memoria), ma che intende procedere nella conoscenza del passato grazie all'unione di sensibilità pluriformi e vibratili quali sono i percorsi della storia e della memoria (le minuscole non vogliono d'altro canto rimandare ai postulati del pensiero debole). Dunque, se da un lato Traverso sembra avere bene in mente l'insegnamento di Tzvetan Todorov sugli abusi della memoria e quello di Walter Benjamin sulla costellazione di tensioni che è il passato, dall'altro la consapevolezza dei rischi presenti nell'uno e nell'altro caso non impedisce al libro di proporre nel terzo capitolo (Lo storico tra giudice e scrittore, pp. 63-78), una via possibile attraverso cui l'incontro fra la memoria e la storia affranca il passato o da una sua "sacralizzazione" mnemonica o da una sua ricostruzione nella formula storicistica-positivista del così "come propriamente è stato". Le considerazioni elaborate fino a questo punto trovano una loro verifica nel momento in cui la Shoah entra nella narrazione come evento storico e come memoria. Autore di dense opere dedicate all'esperienza genocidiaria nazista, Traverso muove la propria riflessione nella parte centrale del testo (Usi politici del passato, pp. 79-92), a partire da due questioni essenziali: la prima relativa al ruolo assunto dal "testimone" di storia nella scrittura e nella trasmissione della Shoah; la seconda riguardante l'interrogativo se sia legittimo scrivere una storia "oggettiva" della Shoah senza rubricare la voce delle vittime come fonti storiche. Medesimo quesito è posto sulla questione della memoria e della storia del comunismo. Su questi due macro-eventi del Novecento Traverso traccia un'efficace panoramica sulle più diverse interpretazioni storiografiche: egli non si limita a menzionare la "classica" disputa emersa fra gli storici - cui sono dedicati comunque gli ultimi due capitoli, I dilemmi degli storici tedeschi, pp. 93-105, e Revisione e revisionismo, pp. 106-116 - ma utilizza, non senza criticarli, strumenti esegetici provenienti da ambiti diversi, che la cultura degli anni Sessanta e Settanta ha volgarizzato e reso dominanti. Infatti, se come sostengono gli intellettuali coinvolti in quel processo chiamato linguistic turn, il fatto storico si riduce ad avere solo un'"esistenza linguistica" (Roland Barthes), se la storia è una "fiction verbale i cui contenuti sono inventati" (Hayden White), qual è lo spazio che passa fra il negazionista "di professione" e il militante "pantestualista", entrambi, pur nella loro radicale diversità, impegnati a deprivare la dimensione del passato del suo proprio vissuto? Storia e memoria non coincidono, ma devono interagire in profondità, stridendo fra loro. Se il passato non va "monumentalizzato" né "oggettivizzato", se la storia non è né un'invenzione narrativa né pura testualità documentaria, allo storico non resta che stare nel mezzo, senza ambizioni totalitarie, consapevole di quel bisogno, a suo tempo indicato da Marc Bloch, di mettere a contatto le differenze più che le somiglianze, producendo senso attraverso l'inquietudine delle domande anziché attraverso rassicuranti risposte. Qualsiasi forma di teologia storica o mnemonica, qualsiasi ideologizzazione del passato schiacciato sul presente, qualsiasi conformismo di pensiero, sembra dirci in ultimo Traverso, farà sì che le ali dell'Angelus Novus benjaminiano restino imprigionate in quella tempesta che, senza tensioni epistemiche, renderà lo sguardo sul passato, sul presente e sul futuro, miope o forse cieco, senza dubbio inconsistente.



L'indice dei libri del mese, 5 maggio 2007

di Francesco Regalzi

Nato da un intervento tenuto all'Università argentina di La Plata e ulteriormente arricchito con nuovi spunti di ricerca, quello di Enzo Traverso è un originale e interessante itinerario investigativo intorno al rapporto tra storia e memor a e aMoro possibili usi politici. Attraverso la ricostruzione delle tappe principali di un dibattito che ha attraversato la storiografia novecentesca, con particolare riferimento a Paul Ricoeur, Walter Benjamin e Maurice Halbwachs, il lettore è indirizzato verso un cammino che ripercorre il nesso storiamemoria alla luce di alcune delle più discusse eredità del secolo scorso. Non senza una certa vena polemica~ I'autore nota infatti l'uso massiccio, quasi un'nflazione, del termine "memoria" negli ultimi anni, tanto da spingere Annette Wievorka a descrivere quella contemporanea come l"'era del testimone" La storia necessita invece, sostiene Traverso, di un processo di emancipazione dal dominio della memoria, superando quei caratter personali, emotivi e selettivi che le sono propri. Tra i molti esempi offerti al lettore, particolarmente interessante è la differenza tra i resoconti in margine al processo Eichmann dei commentatori mossi dalla memoria dei sopravvissuti e le pagine celebri di Hannah Arendt. Soprattutto bisogna rifuggire dal'errore che porta a considerare la memoria come custode della verità e all'istituzionalizzazione delle memorie ufficiali, che conduce facilmente a distorti usi politici della storia e, nel contempo, a differenti memorie nascoste, se non perseguitate. È qui che si evidenzia l'importanza del ruo o dello storico, che, pur non potendo pretendere di raggiungere l'ideale avalutatività, cib nondimeno non pub neppure lavorare, sulla spinta del coinvolgimento emotivo della memoria, "con categorie da diritto penale".



Carmilla
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Revisionismo: le disavventure di un termine
di Paolo Persichetti

Prima di assumere una valenza negativa e diventare sinonimo di sostenitore delle tesi negazioniste (o riduzioniste), che contestano la veridicità storica delle camere a gas e più in generale dello sterminio degli ebrei da parte dei nazisti, il concetto di revisionismo ha potuto vantare importanti galloni di nobiltà. Paradossalmente i primi revisionisti sono stati, sul finire dell’800, proprio gli avversari dell’antisemitismo moderno, ovvero i sostenitori della revisione del processo che aveva portato alla condanna del capitano Dreyfus.
La storia del revisionismo, spiega Enzo Traverso in «Revisione e revisionismo», capitolo conclusivo di Le passé, modes d’emploi. Histoire, mémoire, politique, La fabrique éditions, Paris 2005 (tradotto in italiano da G. Morosato, con il titolo Il passato: istruzioni per l’uso. Storia, memoria, politica, ombre corte, Verona 2006), può essere ricondotta a tre fasi principali: le prime due formatesi attorno ad una controversia marxista e ad uno scisma interno al mondo comunista e in cui il termine conserva un’accezione teorico-politica; la terza, successiva al secondo dopoguerra, nella quale il suo significato si trasferisce a pieno titolo nel dibattito storiografico, connotandosi però di valore positivo per la carica innovativa, sul piano dei contenuti e del metodo, opposta alle vulgate storiografiche dominanti. Almeno fino alla «usurpazione» del termine da parte dei negazionisti, che in questo modo hanno cercato di nobilitarsi come una scuola storiografica alternativa a quella da loro definita degli «sterminazionisti».
Il vecchio segretario di Engels, Edouard Bernstein, fu il primo a fornire dignità teorica al concetto sostenendo la necessità di «revisionare» alcuni aspetti del pensiero marxiano. Egli tentava in questo modo di adeguarne il lascito teorico alla svolta riformista e statalista della socialdemocrazia tedesca. Allora il «revisionismo» divenne l’oggetto di un’accesa disputa teorica su cui si riversò la dura critica di Kautsky (anch’egli più tardi convertitosi, al punto di beccarsi del «rinnegato»), Luxemburg e Lenin. Anche se molto duro, il confronto restò tuttavia nell’ambito di una battaglia di alto livello ideologico. Seguirono altre revisioni, sempre nelle file socialiste, che virarono verso quelle che furono le premesse del fascismo (Mondolfo, Sorel, de Man). Il termine ormai cominciava a diffondersi e venne impiegato, negli anni ’30, nei confronti di Vladimir Jabotinsky, che, rifiutando la via diplomatica sostenuta dai fondatori del sionismo politico, prospettava con grande anticipo sulla storia la necessità del ricorso alla forza per la creazione di uno Stato ebraico in Palestina. Sempre in quegli anni il termine assunse una connotazione dogmatica feroce che fece scuola nella tradizione politica kominternista, divenendo un terribile epiteto dispregiativo con il quale veniva etichettato il «traditore» di turno. La rottura con Tito, nel ’48, lo scontro tra Cina e Unione Sovietica del ’60 e il ’68 attribuirono all’espressione un successo linguistico di massa.
È solo nel dopoguerra, dunque, che il concetto comincia a designare anche forme di rinnovamento dell’interpretazione storiografica. Qui Traverso richiama i lavori di storici come Fischer, che promosse una nuova interpretazione delle origini del primo conflitto mondiale, Kolko, che sottopose a critica la tesi che attribuiva ai sovietici le origini della guerra fredda, o di Alperovitz, che mise in luce nuove ragioni che portarono gli USA a lanciare l’atomica sul Giappone (acquisire subito la supremazia mondiale nel confronto militare con i sovietici, piuttosto che ridurre la durata della guerra e il numero delle vittime). Revisionista può dirsi in Italia il dibattito che agli inizi degli anni ’60 critica la vulgata liberale e riprende la tradizione dei ‘meridionalisti’ confluita nelle tesi gramsciane sui limiti del Risorgimento, denunciando il carattere colonialista dello Stato unitario. Allo stesso modo è revisionista la rilettura liberale della rivoluzione francese promossa alla fine degli anni ’80 da Furet e preannunciata dai nouveaux philosophes. Lo stesso può dirsi per il contributo dei «nuovi storici» israeliani (Morris e Pappé), i quali presentano il conflitto arabo-israeliano del ’48 non solo come guerra di autodifesa, ma anche come «epurazione etnica».
Apertamente revisionista è il lavoro di Renzo De Felice quando infrange la vulgata azionista che domina la retorica antifascista dell’«arco costituzionale» (fatta propria anche dall’interessata rimozione dei troppi comunisti redenti) e riporta alla luce i tratti rivoluzionari del primo fascismo, la sua capacità modernizzatrice e razionalizzatrice (a cui si ispirerà la stessa teoria keynesiana) e il consenso di massa raggiunto dalla dittatura negli anni ’30. Argomenti occultati dalla storiografia ufficiale e da quella di sinistra di formazione gentiliano-bottaiana, che aveva dimenticato le lezioni di Togliatti sul fascismo come «regime reazionario di massa» e la tesi di Bordiga che vi aveva intravisto un processo modernizzatore del capitalismo degli anni ’30. Revisionisti sono i lavori di Sternhell e Paxton, che evidenziano le origini repubblicane della Francia di Vichy e ricostruiscono le radici nazionali del fascismo francese.
Revisionista è Claudio Pavone quando negli anni ’90 scardina il dogma della Resistenza come guerra patriottica e nazionale e fa riemergere anche il suo carattere di guerra di classe e guerra civile. E si può aggiungere che allo stesso titolo revisionisti sono, alla fine degli anni ’90, i lavori pioneristici di Marco Clementi e Vladimiro Satta contro le teorie del complotto impiegate per spiegare il rapimento Moro e più in generale la vicenda della lotta armata condotta da alcun gruppi della sinistra rivoluzionaria. Contributi che sgretolano l’immondizia storiografica proliferata attorno a categorie come quelle di «doppio Stato» e «poteri paralleli», cauzionate da figure importanti come Franco De Felice, Bobbio, Galli.


Però le revisioni, sostiene sempre Traverso, possono avere diverso valore e spessore, a seconda che siano il risultato della scoperta di nuove fonti e testimonianze o conseguenza di mutamenti di paradigma interpretativo, come nel caso della storia delle donne, o in passato per la storia sociale e delle mentalità, che hanno ribaltato i metodi e l’oggetto di ricerca tipici della storia evenemenziale, ed oggi i cultural studies o la socio-storia, che propone anche una visione critica di quegli «imprenditori della memoria» dietro i quali ormai non si cela più soltanto il mestiere dello storico. Differente, invece, è il significato di quelle «revisioni», espressione unicamente di svolte etico-politiche, che interpretano la vulgata apologetica di nuove fasi storiche: come in Nolte, antesignano del «rovescismo», che legge in forma giustificazionista l’avvento del Terzo Reich, ritenuto l’inevitabile reazione al «male bolscevico». Una forma di revisionismo ideologico in cui prevale un uso pubblico della storia finalizzato unicamente a dare senso e fornire referenti simbolici alle nuove epoche che si instaurano, e a cui può iscriversi l’intero filone poliziesco inaugurato dal Libro nero del comunismo curato da Courtois. Se quest’ultimo approccio va certamente combattuto, serve invece interrogarsi sull’efficacia pedagogica che offre l’assimilazione di ogni revisionismo sotto una medesima categoria negativa. La criminalizzazione fuoriesce dal dibattito delle idee, terreno sul quale occorre vincere: è una pratica inquisitoriale, una scomunica verso quella che è considerata un’eresia. La storia non può trasformarsi in un canone normativo. Per questo motivo, secondo Traverso, sarebbe meglio abbandonare completamente la categoria di revisionismo, poiché essa, in realtà, è l’inevitabile contraltare ad ogni concezione teologizzata e dogmatizzata della storia («se si accetta la nozione di “revisionismo”, bisogna ammettere il principio di una storia ufficiale»), come avveniva per l’antifascismo di Stato nei paesi dell’ex campo socialista, o accade oggi, per il genocidio ebraico, sacralizzato come una religione, e non a caso chiamato Olocausto (sacrificio). «Instaurare una verità storica ufficiale protetta dai tribunali – conclude – ha l’effetto perverso di trasformare gli assassini della memoria (come aveva ribattezzato i negazionisti lo storico Vidal-Naquet) in vittime della censura». Di questo passo accadrà che chiunque intenda esercitare in modo critico e scomodo il lavoro di storico finirà per essere identificato come un potenziale terrorista della memoria.



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