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Cicatrici dello spirito
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La lotta contro l'inautenticità
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La Stampa - Tuttolibri - sabato 22 luglio 2006
È la tivù il nuovo mondo come rappresentazione
Di Giovanni De Luna
Da un lato la realtà di una partita affollata di episodi concentrati in uno spazio (il rettangolo del campo) e in un tempo (i 90 minuti più i supplementari e i rigori) incredibilmente esigui rispetto alla mole straripante di passioni e di interessi che si sono scatenati; dall'altro la rappresentazione mediatica di quella realtà, incentrata sulla testata di Zidane ossessivamente reiterata. Con il tempo, sarà questa l'unica realtà a sopravvivere per chi racconterà la finale tra Italia e Francia. E allora? Dobbiamo veramente abituarci a convivere con una realtà sempre più lontana dalla verità dell'evento e sempre più modellata sull'inautenticità della sua rappresentazione mediatica?
Sono interrogativi che accompagnano la storia culturale del Novecento, sui quali ritornano i vari saggi raccolti in questo bel libro di Geoffrey Hartman. Il rapporto tra la televisione e la storia è problematico proprio per l'intrinseca inautenticità delle forme della narrazione televisiva; il sospetto si riferisce non solo alla televisione come strumento per raccontare la storia, ma anche alla sua funzione di "raccoglitore" di documenti e di testimonianze. Hartman ha filmato le interviste ai superstiti dell'Olocausto, confrontandosi da vicino con la capacità delle telecamere di invadere la mente e il cuore dei testimoni che in quel momento - pure davanti alla parte più drammatica della loro vita - arrivavano a modellare il flusso dei loro ricordi più sulle regole della rappresentazione di cui erano protagonisti (non lontane da quelle della fiction), che sull'autenticità di un dramma che aveva coinvolto tutta l'umanità.
Più in generale, sostiene Hartman, "la fruizione immediata di immagini riferite alla storia contemporanea comporta inevitabilmente un livellamento sul piano della simultaneità e della contemporaneità, producendo così anche una destoricizzazione dell'esperienza". È una tesi nota e condivisa da molti. La sua originalità è in questo caso legata alla riflessione sulla "forma iperbolica di visività" che la tivù mette in campo. L'"in autenticità" di Hartman non c'entra niente, infatti, con la manipolazione, con la falsità, con la censura, con il potere politico, con le regole del mercato, insomma con tutti gli elementi con cui di solito si confrontano gli studiosi del sistema dei media. Quella che viviamo oggi, egli dice, è un'alterazione degli schemi della percezione, la nascita di nuove gerarchie dell'apprendimento culturale legate a una dimensione compiutamente audiovisiva che, tra tutti i nostri sensi, mette all'opera soprattutto la vista, anzi una sorta di "lussuria della vista". Con Gutenberg, la cultura si era emancipata dalla parola e dall'oralità per ritrovarsi nella scrittura. Oggi, il passaggio dal libro alle immagini opera una rivoluzione sensoriale come quella di cinque secoli fa: "Solleviamo gli occhi da un libro per pensare o quantomeno per riposare la vista, lasciando che ciò che abbiamo letto penetri a fondo nell'animo. Al contrario la tivù non offre, anche per la facilità dello zapping, reali interruzioni o pause di riflessione, ma una rappresentazione audiovisiva dopo l'altra".Mala rivoluzione è solo all'inizio: in questa fase noi viviamo già in una cultura visiva artificialmente enfatizzata, ma non possediamo ancora una cultura visiva. E questo è il punto. Stiamo vivendo un'esperienza troppo nuova, non ancora metabolizzata a livello intellettuale; di qui l'impossibilità di disporre di antidoti critici contro i modelli di passiva subalternità che segnano la fruizione individuale della televisione. A questo punto Hartman indica due strade: l'accettazione di questa realtà e l'affrettarsi verso la nascita di una nuova cultura, modellata sulla dimensione audiovisiva dei suoi strumenti e in grado di contrastarne la pervasività; il suo rifiuto radicale, quello che vive la sua configurazione più estrema nella lotta talebana contro le immagini, nel furore religioso contro la lussuria degli occhi. Nell'eresia iconoclasta, la modernità, identificata con il potere tecnologico di imitazione e di dissimulazione, viene vista al servizio di un demiurgo ingannevole, un demiurgo ingannatore che si presenta come il Dio di questo mondo ma che non è il vero Dio: la liberazione dall'inganno può esserci solo distruggendo questo mondo "in autentico", costruito dall'ingannatore. È un percorso al cui interno lo stesso 11 settembre può apparire come rito di distruzione delle icone simboliche dell'Occidente.
IPERSTORIA (www.iperstoria.it)
Intervista a Geoffrey Hartman
di Anna Belladelli
Il critico letterario è stato intervistato a Verona in occasione della presentazione del suo saggio Cicatrici dello spirito. La lotta contro l’inautenticità, recentemente tradotto in italiano presso Ombre Corte. La Conversazione toccherà temi legati alla memoria, al cinema dell’Olocausto e alle dinamiche sociali successive all’11 settembre.
Nato in Germania nel 1929 ma emigrato negli USA dopo gli orrori della Shoah, Geoffrey Hartman è uno dei principali esponenti della corrente di critica letteraria nota come Decostruzione americana. Tra i maggiori interpreti a livello mondiale del Romanticismo inglese, è professore emeritus di letteratura inglese e comparata all’Università di Yale. Negli ultimi vent’anni si è occupato della creazione e della conservazione del progetto Fortunoff per l’Archivio visivo delle testimonianze dell’Olocausto, una raccolta di oltre quattromila interviste audio e video dei sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti.
(L’intervista è stata condotta il 2 maggio 2006)
Professor Hartman, dopo la lettura del suo libro è inevitabile partire da qualche curiosità circa il progetto Fortunoff per l’Archivio visivo delle testimonianze dell’Olocausto. Mi interessa sapere in quali lingue sono state registrate le testimonianze dei sopravvissuti, dal momento che secondo me la possibilità o meno di esprimersi nella propria madrelingua costituisce un ulteriore elemento di autenticità.
Ci abbiamo pensato molto perché gli imperativi erano due. Da una parte volevamo che i testimoni utilizzassero la lingua che li metteva maggiormente a loro agio, il che era anche un modo per registrare più Yiddish possibile. Dall’altra parte avevamo un imperativo più didattico, perché era nostro desiderio rendere i video accessibili al pubblico. Così, dopo avere spiegato agli intervistati queste due esigenze, abbiamo lasciato a ciascuno la libertà di scegliere.
Lingua a parte, quello che posso commentare sulle testimonianze, o perlomeno su quelle che ho visionato perché sono più di quattromila (meno di quelle raccolte da Spielberg ma siamo stati noi i pionieri!), è che molti sopravvissuti sono reticenti, attuano una forma di difesa che si tramuta in un distacco dalla loro stessa esperienza, arrivando al blocco della parola. Per questo motivo li incoraggiamo a tornare, anche dopo mesi se vogliono, per ampliare il loro racconto. Tuttavia, per quanto siano consapevoli del valore educativo dell’archivio e vogliano sinceramente dare una mano, comprendo la loro fatica nell’essere ripresi mentre raccontano esperienze tanto dolorose.
Vorrei soffermarmi sulla questione didattica. Nel suo libro cita Platone quando dice che "le parole scritte divengono orfane" (p. 117) perché, dopo la morte dell’autore, restano in balia dell’interpretazione del lettore. È un rischio che corrono anche i video, in un certo senso? Esiste una forma di controllo o di protezione sulla"“libera interpretazione" delle registrazioni?
Non è nostra intenzione fornire una griglia interpretativa che in qualche modo prepari o indirizzi chi guarda le testimonianze. Allo stesso tempo, però, vogliamo evitare la fruizione voyeuristica dei curiosi. Mi sono opposto all’eventualità di diffondere il materiale in Internet. È la gente che deve venire da noi, in modo tale che, per quanto possibile, abbia accesso ai video soltanto chi è veramente interessato. Alcuni racconti sono talmente forti che la gente ha davvero bisogno di chiedere spiegazioni e chiarimenti; per questo all’Università di Yale c’è un gruppo di volontari che si occupa proprio di parlare con i visitatori, non per limitare la loro interpretazione ma per aprire un dialogo su ciò che hanno visto e sentito. Credo sia importante creare una comunità ristretta di persone che, non mosse da curiosità e da voyeurismo, conservino e tramandino questa memoria così intima.
Poi lavoriamo con le scuole superiori, per cui l’Archivio Fortunoff ha predisposto pacchetti di 20-25 minuti su diversi argomenti. La scuola può riceverli gratuitamente, spese di spedizione a parte, tenerli e restituirli dopo tre mesi (ovviamente senza farsene una copia). In questo modo lasciamo agli insegnanti la piena libertà di organizzare come credono le loro lezioni. L’importante è che gli studenti siano preparati dal punto di vista storico: estrapolati dal contesto, i video sono scioccanti e basta. E lo shock da solo non serve a niente. Per questo ho scritto un breve saggio che fornisce le basi storiche minime per contestualizzare le testimonianze dei sopravvissuti ["Audio and Video Testimony and Holocaust Studies", in M. HIRSCH, I. KACANDES (eds.), Teaching the Representation of the Holocaust, New York, Modern Language Association, 2004, NdR].
Traumatizzare il pubblico è una tecnica imperante nel mondo del cinema, anche in film che trattano il tema dell’Olocausto. Nei film un personaggio comincia a ricordare e, mentre parla, l’immagine sfuma per lasciare spazio alla ricreazione visiva dell’esperienza vissuta. Nelle interviste dei sopravvissuti questo non accade: i racconti, anche i più cruenti, sono mediati dalla parola e quindi non impongono una ricreazione visiva dell’accaduto. È questa efficace combinazione di elementi diretti e indiretti che fanno della testimonianza un genre narrativo a parte.
Un genre più vicino alla sensibilità della tragedia greca.
Certamente. Nelle tragedie greche la violenza non viene mai messa in scena sul palco ma non per questo è meno drammatica. Il genre della testimonianza è antiiconico, antivisivo e contrasta la logica della visione forzata e dell’ipervisualità che caratterizza il mondo contemporaneo.
Per restare in tema di cinema, nel suo libro fa riferimento a molti film e registi ma non cita La vita è bella di Roberto Benigni. L’ha visto e, se sì, ha qualche riflessione da condividere in proposito?
Mi sono trovato nella condizione non troppo comoda di dovere difendere questo film parlando con i miei amici. Le obiezioni più comuni erano due. La prima riguardava il titolo: per quanto qui da voi sia stato efficace a livello pubblicitario, da noi ha frenato non poche persone che avevano preso troppo sul serio (e quindi giudicato male) il messaggio secondo cui "malgrado tutto, la vita è bella". La seconda riguardava la paura che un pubblico poco informato ricevesse un’immagine falsata di che cosa è stato davvero un campo di concentramento. Però, dico io, esiste film in grado di fare capire che cosa è stato davvero un campo di concentramento?
A me è parsa una commedia nel senso antico del termine, dove il lieto fine arriva dal nulla, come un deus ex machina, a ricordare che in fondo "la vita è bella". Il film utilizza gli stilemi della commedia degli errori (mi riferisco in particolare al gioco a premi inventato dal protagonista) rendendo quindi necessario l’arrivo “magico” del carro armato alla fine. La minaccia della morte, poi, è stata dosata con cura per lasciare al pubblico la possibilità di ridere fino alla fine. Benigni è passato dalle gag iniziali, tipiche della slapstick comedy, a un genere più cupo, un grottesco simile - ma non uguale - a quello felliniano. Un esempio che mi torna in mente è la scena dell’indovinello del professore tedesco.
Quello che ho apprezzato di più è stato il tentativo del padre di salvare il figlio dal trauma, un gesto molto importante per quanto artificiale e dall’esito improbabile, perché le atrocità dell’Olocausto sono state tanto grandi (dentro e fuori i campi) che per molti è difficile addirittura credere che siano potute accadere.
Il film ritrae una situazione incredibile - quella della deportazione - per poi convertirla in un’altra altrettanto incredibile. Mi spiego: per salvare il figlio, o almeno la sua psiche, il padre converte la minaccia della morte nella minaccia relativamente innocente di essere eliminati dal gioco. La componente psichica è qui molto forte, non soltanto perché c’è in gioco la mente di un bambino, ma anche perché viene riproposto un meccanismo di difesa che molti mettono in atto nel rapportarsi all’Olocausto. Visto di che cosa è stato capace il genere umano, senza una qualche forma di trasfigurazione dell’accaduto nessuno potrebbe salvare un briciolo di ottimismo circa quella che io chiamo la coscienza della specie.
Guardando il film ho trovato inoltre molte affinità con Ladri di biciclette: a legarli è lo stesso tipo di rapporto padre-figlio, un rapporto che raggiunge in entrambi i casi livelli altissimi di pathos.
Nel capitolo "Esteticidio" lei critica in modo alquanto severo la situazione attuale dei piani di studio delle università americane. In particolare contesta i cosiddetti Cultural Studies, nati negli anni Settanta.
La mia critica principale riguarda lo studio delle lingue straniere: non si può studiare una cultura senza leggere in lingua originale le opere d’arte che ha prodotto. Attribuisco tanta importanza alla lettura non tanto perché ho una formazione letteraria, quanto perché credo che la differenza tra due culture sia molto simile alla differenza tra due lingue. Non si possono fare delle affermazioni accademiche sulla base di materiale studiato in traduzione. Occorre fare esperienza diretta dell’atto traduttivo per comprendere quanti tranelli, quanti spazi vuoti e quante differenze concettuali ci siano tra una lingua (e cultura) straniera e la propria.
Infatti la corrente attuale degli studi sulla traduzione vede il traduttore come mediatore culturale.
Sono d’accordo sull’uso del termine “mediazione”, e lo sarebbe chiunque abbia una qualche nozione di storia. Mi sembra che chi si occupa di Cultural Studies, per quanto abbia buone intenzioni e buoni obiettivi, tenda a rendersi la vita un po’ troppo facile. Questi studiosi osservano la varietà delle culture e come l’una metta alla prova i presupposti dell’altra; poi però si fermano, non vanno oltre, senza peraltro riconoscere che non sapere le lingue straniere è un loro limite.
Gli studi sulle culture esistevano prima dei Cultural Studies e avevano un’impostazione più propedeutica. Non nego che si possano scrivere ottimi saggi e si possano organizzare corsi interessanti sui Cultural Studies, ma ripeto che è impossibile fare affermazioni accademiche basandosi su una conoscenza delle letterature "schermata" dalla traduzione.
Tuttavia ci tengo a dire che non voglio essere dogmatico ma parlo semplicemente da amante della letteratura. In questo senso, la mia critica presente in Cicatrici dello spirito non è di tipo dogmatico ma serve ad aprire un dibattito sul tema.
La mia ultima domanda riguarda l’epilogo di Cicatrici dello spirito, dal titolo "11 settembre". In Europa, dopo gli attacchi, i media e i politici ci invitavano caldamente a dire "Siamo tutti newyorkesi". Per fare un altro esempio, poi, in TV attori e soubrette in lacrime venivano intervistati in qualità di "vittime" perché magari dieci anni prima avevano visitato le Torri Gemelle in viaggio di nozze. Possiamo parlare anche in questo caso di ciò che lei definisce "invidia della memoria"?
In effetti, si tratta di un’estensione molto interessante del concetto per come l’ho formulato io. L’identificazione con i newyorkesi è stata in quel caso più comunitaria che individuale, anche se molto probabilmente è partita da un gruppo piuttosto che da un altro.
In realtà, avevo formulato il concetto di "invidia della memoria" all’interno del contesto letterario. Se fai parte di un gruppo la cui memoria o è stata trascurata nel tempo o non è considerata sufficientemente forte (e parlo qui soprattutto della borghesia nella sua accezione più negativa), l’arrivo di una catastrofe come l’Olocausto, o un genocidio in generale, costituisce una buona occasione per creare una memoria per il tuo gruppo. Potrei sbagliarmi, ma credo che questo processo parta da una riflessione del singolo, e in particolare del singolo artista la cui opera, se è abbastanza potente, può in un secondo momento arrivare a influenzare il "gruppo".
Per tornare all’11 settembre, la domanda che mi ha posto inserisce la questione in un’ottica nuova che non avevo previsto. La riflessione che mi sento di fare è che si sia trattato piuttosto di “invidia dell’unità“: a prescindere da dove sia partito l’invito a dire “siamo tutti newyorkesi”, e malgrado la possibilità che tale slogan sia stato sfruttato a fini politici, la gente ha in qualche misura invidiato il popolo americano, che riscopriva un sentimento genuino e accorato di unità e di comunità sotto la bandiera.
Tuttavia, non riesco a non pensare ai possibili rischi di una simile unità. Davanti agli occhi mi compaiono le immagini delle parate rituali in onore di Hitler o dei raduni in certi Stati arabi dove l’unico motore è il consenso indiscusso nei confronti dell’ayatollah. Il mio saggio "Culture and the Abstract Life", incluso nel volume The Fateful Question of Culture, tratta proprio il tema della cultura vista nella sua funzione militante e nel suo ruolo unificante per tutte quelle persone che si sentono fantasmi, che nutrono una profonda insoddisfazione perché non sono state in grado di trovare nella loro vita forme valide di partecipazione attiva.
E anche questa nostra breve chiacchierata, in fondo, è una forma di partecipazione attiva.
IPERSTOTIA recensione
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