Sandro Chignola (a cura di)
Governare la vita
Un seminario sui Corsi di Michel Foucault al Collège de France (1977-1979)
 
Liberazione - 9 giugno 2006

Il lascito di Foucault, la filosofia come diagnosi del potere

"Governare la vita" una raccolta di saggi di autori vari curata da Sandro Chignola sui due corsi che il filosofo tenne al Collège de France tra il 1978 e il 1979. Istruzioni per l’avvenire più che lavori compiuti

di Girolamo De Michele

Tra il 1978 e il 1979 Michel Foucault tiene due corsi al Collège de France: si tratta, per il filosofo che negli stessi anni lavora alla Storia della sessualità, di esporre delle ipotesi di lavoro, di saggiare la validità di progetti in corso di definizione. Di ripensare lo stesso disegno di un potere disciplinare. Non è casuale che questa ricerca sia abbozzata nel corso di quella sorta di impasse che prende Foucault dopo la stesura de La volontà di sapere, che doveva introdurre le successive ricerche sulla sessualità e che invece si rivela il primo passo verso una ridefinizione dei processi di soggettivazione.
Questi corsi, pubblicati in Francia nel 2004 e tradotti in Italia nel 2005 - Sicurezza territorio popolazione e Nascita della biopolitica - sono oggi messi in questione da una enquiry ruotante attorno a un seminario presso l’Università di Padova coordinata da Sandro Chignola, che ha curato la pubblicazione dei contributi più rilevanti, accresciuti da altri saggi di spessore: il risultato è questo Governare la vita (edizioni Ombre Corte, pp. 154, euro 13,00). I testi di Foucault, va detto, sono discontinui, caratterizzati da pieni e vuoti parimenti sorprendenti, a volte persino discutibili: è l’esposizione di lavori a venire, non di compiute ricerche. A fronte della brusca interruzione della ricerca causata dalla morte di Foucault, l’atteggiamento degli studiosi qui raccolti (oltre allo stesso Chignola, Pandolfi, Senellart, Karsenti e Zanini) è quello di chi accetta la sfida del testo e rilancia, cercando di produrre quei pieni che mancano nell’originale. Non esegeti dediti all’ermeneutica del frammento, ma studiosi militanti, che ripropongono e rilanciano questioni e problemi: «la teoria non anticipa la prassi - scrive Chignola - e non traguarda in formule prescrittive. Il lavoro del filosofo è la diagnosi dell’attualità. Apertura di cantieri storici in cui verificare ciò che siamo. Critica del presente nella misura in cui la ricerca si mette a disposizione di coloro che tengono aperta la porta stretta del futuro».
Cosa è messo in questione dall’ultimo Foucault? La questione stessa del potere, o meglio, di una nuova economia del potere che ha come oggetto il governo della popolazione. Questo approccio implica l’abbandono di una sorta di dogma del pensiero politico: lo studio del potere a partire dal sovrano, secondo un asse che partiva dal Machiavelli del Principe per incentrarsi sul Leviatano di Hobbes e finire con l’attribuire centralità al sovrano schmittiano come colui che decide del rapporto amico-nemico. Questo approccio ha generato una vera ossessione nei confronti del Leviatano (concretizzatasi in un passato non lontano nelle superfetazioni dei testi di Carl Schmitt e nell’assunzione naturalistiche delle sue categorie): è dunque salutare, oltre che innovativa, la mossa con cui Foucault sposta lo studio dalla fabbricazione del sovrano alla fabbricazione degli individui, cioè verso la produzione della vita stessa.
Non più il potere medioevale come istanza che dà la morte e lascia vivere: il potere moderno, cioè il biopotere, interviene direttamente sulla vita producendola (si pensi agli apparati amministrativi che governano l’esistenza, alla medicalizzazione del corpo, alla selezione delle malattie) e lasciando quindi la libertà di morire. Foucault scopre che il potere in sé è qualcosa che non esiste, nel senso che non esiste un potere per così dire “puro”: «esso circola, ripartisce, organizza lo spazio sociale. E’ un fascio di relazioni più o meno gerarchizzate - scrive ancora Chignola - più o meno coordinate, costantemente minacciate dalla stessa libertà che esso cerca di domare e dalle forme di resistenza che lo attraversano». Come aveva detto della follia, Foucault può ora dire che il potere non esiste, ma «non si può dire che non sia niente». Esiste nella misura in cui produce effetti: cioè governa. La governamentalità è proprio questo, in ultima analisi: la definizione di un nuovo insieme sociale, la “popolazione”, che si distacca per organizzazione, disciplinamento, assoggettamento dall’insieme informe del “popolo”, che è ciò che al governo resiste.
Rispetto alle analisi dei processi di assoggettamento della Storia della follia la novità è costituita dalla scoperta del ruolo della pastorale cristiana come tecnica di potere fondata sull’obbedienza pura, tecnica che viene incorporata dallo Stato, attraverso la scienza di polizia, cioè quella «forma specifica di sapere e di intervento politico - spiega Senellart - che ha per oggetto non solo il buon ordine pubblico, ma anche il numero degli uomini, le necessità della vita, la salute al fine di accrescere la potenza interna dello Stato». Da cui segue che relazioni, metodi e punti di applicazione del potere diventano visibili solo assumendo il punto di vista della resistenza al potere, piuttosto che tipi ideali. Soprattutto, con una mossa che Foucault concepisce nei termini di uno storicismo radicale (cioè senza il suo retroterra finalistico o biologistico): il potere va analizzato a partire dalla sua capacità di risolvere un confronto strategico, ossia non in base a una supposta “verità”, ma sulla base della sua capacità di produrre le condizioni di effettualità della verità.
Con le parole stesse di Foucault, è «non tanto la storia del vero e del falso, bensì la storia della veridizione ad essere politicamente rilevante». Vero è, parafrasando il sofista Trasimaco, ciò che le tecniche di governamentalità hanno la capacità di rendere vero. Da cui, come ulteriore conseguenza, un rinnovato interesse verso le teorie dei giochi linguistici e degli atti discorsivi, che hanno da dirci sulla questione del potere molto più delle ermeneutiche heideggero-gadameriane. Non sorprende che, a questi livelli, Foucault rigetti decisamente ogni riduzione che appiattisce questo complesso gioco di relazioni sulle false antitesi del pensiero dialettico o sulle facili esemplificazioni del paradigma della guerra. Si tratta di riduzionismi che non sono in grado di rendere conto della complessità che si intesse tra Stato e mercato. Se infatti la circolazione delle merci, come pure degli individui (e quindi la gestione delle infrastrutture) è ciò di cui si prende cura la scienza di polizia (police), è anche vero che il mercato stesso viene a costituirsi non come ciò che supporta una qualche verità data, ma è il luogo stesso di veridizione (o di falsificazione) della pratica governamentale. Ma «una simile concezione dello stato di diritto entro l’ordine economico - sono parole di Foucault - esclude, in fondo, che vi sia un soggetto universale del sapere economico, capace, in un certo senso, di dominare dall’alto l’insieme dei processi, di fissare dei fini e di sostituirsi a una o all’altra categoria di agenti per prendere una certa decisione». Lo spazio della sovranità si rivela quindi «abitato da soggetti economici che la teoria giuridica non è in grado di governare. Nemmeno il mercato, però, ha una tale capacità» (Zanini). Qui Foucault si ricongiunge all’intuizione di Deleuze che vedeva la coesistenza, incessante quanto impossibile a costituire una totalità determinata, della tecnocrazia che «pretende di promuovere assetti parziali dei rapporti sociali al ritmo delle acquisizioni tecniche», e del dispotismo «che vorrebbe istituire la totalizzazione del significabile e del conosciuto al ritmo della totalità esistente» (Logica del senso). In definitiva, «non c’è e non può esserci pacificazione o sintesi liberale», perché «il liberalismo non esiste che nel modo della crisi» (Karsenti).
Rimane aperta una questione, da rilanciare alle pratiche dei movimenti prima ancora che al pensiero critico: che cos’è che, politicamente, non è mai accaduto? La risposta di Foucault è: una rivoluzione antipastorale. Una rivoluzione contro l’obbedienza pura, contro la costituzione di soggettività in termini di dipendenza. In tempi di rigurgiti ecclesiastici neo-pastorali, così come di nostalgie neo-leninistiche (Zizek) o derive iper-soggettivistiche, la domanda è di urgente attualità.



il manifesto - 7 luglio 2006

Incursioni oltre i confini del liberalismo

Le pratica e le tecnologie del governare studiate dal filosofo francese fanno parte, con lo stato e la società, del grande trittico del pensiero politico
«Governare la vita», un importante volume che analizza i corsi di Michel Foucault dedicati al legame tra popolazione e governo e tra biopolitica e liberalismo

Judith Revel

Con qualche colpevole e tutto sommato comprensibile pigrizia, ci si aspetta spesso che il titolo di un libro identifichi il contenuto delle pagine che propone alla lettura. Da questo punto di vista, Governare la vita. Un seminario sui corsi di Michel Foucault al Collège de France (1977-1979) (Ombre Corte, pp. 154, euro 13), piccolo e densissimo volume curato da Sandro Chignola, si presenta al contrario, e in modo assai provocatorio, come l'equivalente editoral-filosofico dei «falsi amici» linguistici. In effetti, benché il libro sembri offrire - attraverso il riferimento esplicito alle lezioni che Foucault dedica successivamente ai due binomi «governamentalità/popolazione» e «biopolitica/liberalismo» negli ultimi anni '70 - una leggibilità immediata, e indichi chiaramente come perni della sua indagine un'azione semplice (governare) e lo spazio di applicazione di quest'ultima (la vita) -, non si può immaginare titolo più ostico, ma anche - proprio per questa ragione - più allettante.

L'oggetto del pensiero

In primo luogo, perché l'insieme di pratiche e di tecnologie che Foucault individua come un governare devono immediatamente misurarsi sia con la nozione classica del governo (e, successivamente, con i due altri termini del grande trittico del pensiero politico moderno: lo stato e la società), sia con l'emergenza parallela nelle analisi del filosofo francese sui temi della «soggettivazione» e della libertà. Ma anche perché la vita, che viene precisamente fatta oggetto di governo e che va descritta come materia e, al tempo stesso, come posta in gioco di una nuova serie di poteri (biopoteri, per l'appunto), ci costringe in realtà a misurare quanto sia difficile una sua definizione lineare.
Un libro-trappola, insomma, che dischiude a partire da questa doppia difficoltà sbandierata fin dal suo titolo un'indagine appassionnante e che, attraverso i cinque interventi presentati - oltre a quello dello stesso Chignola, che firma anche la prefazione, quelli di Michel Senellart, Bruno Karsenti, Alessandro Pandolfi e Adelino Zanini -, propone altrettante ipotesi di lettura che si presentano in realtà come un tentativo di applicare a Foucault stesso il metodo che egli applicava ai suoi campi di ricerca: un paziente lavoro di problematizzazione.
Negli due ultimi anni della sua ricerca, infatti, Foucault usava la nozione di problematizzazione in modo specifico: non per indicare il modo in cui ci si rappresenta un oggetto precostituito, né per mostrare come un insieme di discorsi possa dare consistenza ad un oggetto che non preesisteva ad essi, ma per formulare il principio di un'analisi che cercasse di capire «l'insieme di pratiche discorsive o non-discorsive che fa entrare qualcosa nel gioco del vero e del falso e lo costituisce come oggetto per il pensiero».
Quasi trent'anni dopo queste lezioni al Collège de France, Governare la vita ci offre dunque cinque esercizi di problematizzazione applicati al lavoro stesso di Foucault, che hanno tutti il merito di rilanciarne la grande ricchezza e l'evidente complessità. Sandro Chignola, rifacendosi nel suo saggio all'importanza assunta nell'ultimo Foucault alla filosofia kantina - meno il Kant delle Critiche che quello degli opuscoli sulla storia - e vedendovi giustamente il fondamento di un vero e proprio pensiero dell'attualità, evoca la necessità che Foucault aveva di «diagonalizzare il presente con la storia». Paradossalmente, e mentre Foucault rischia ormai di diventare una figura fin troppo liscia nella storia del penserio contemporaneo, il libro ha il pregio di procedere al contrario: diagonalizza quella storia con il nostro presente e ridà spazio ad un tema che non riguarda solo la comprensione del pensiero foucaultiano ma che interroga il nostro sguardo su di essa.

Dall'antagonismo all'agonismo

Innumerevoli, dunque, i problemi e le ipotesi formulate nel seminario all'origine del volume. In primo luogo, lo spostamento, tra il '76 e il '78, delle analisi foucaultiane dalla guerra alla «governamentalità» o, per dirlo con Michel Senellart, «dall'antagonismo all'agonismo», vale a dire da un'analitica dei poteri incentrata sulla loro natura bellica ad un lavoro di reperimento di tutte le forme di rapporto che, anche al di fuori della sfera classica del politico, si danno allo stesso tempo come «incitamento» e come «lotta». L'ipotesi «discontinuista» di Senellart - contrariamente alla lettura che ne danno studiosi come Pasquale Pasquino o Colin Gordon - consiste nell'assumere pienamente la rottura con un'indagine che era stata inizialmente incentrata sui dispositivi di potere e che viene invece ridefinita come problematizazione di una serie di rapporti inediti la cui emergenza non solo eccede il semplice quadro della sovranità e della norma nella sua vesta giuridica, ma permette anche una nuova genealogia della formazione della razionalità occidentale.
Dai dispositivi ai rapporti, dunque. Da qui l'urgenza di analizzare «le identità stabilite a partire di complessi di forze», integrando fin dal principio quell'altra diagonale che viene rappresentata dalla «soggettivazione» e che sboccierà, nell'81, nel corso «Soggettività e verità».
Il secondo problema, che vi è legato, e che viene ampiamente sottolineato da Bruno Karsenti, consiste nell'interrogare l'ambiguità di questo spostamento: il passaggio alla tematica della governamentalità come rapporto non impone forse un allargamento del concetto di potere come «azione sull'azione degli uomini», secondo la bella espressione di Foucault? E non significa forse pensare il politico in modo esogeno a partire dalla funzione pastorale del governo e, successivamente, come un'economia della vita?
Sull'economia politica e sul modo in cui Foucault ripensa interamente il liberalismo come biopolitica, le pagine di Adelino Zanini sono di particolare efficacia: il liberalismo, nonostante le numerose approssimazioni che si possono trovare in Foucault, viene in effetti letto contemporaneamente come modello politico di gestione delle popolazioni e come riformulazione della political economy. L'analisi della seconda e il legame che essa instituisce con la prima permette allora, secondo Zanini, una genealogia di questa finzione che è l'homo oeconomicus.
Ma per Karsenti quest'adozione di un punto di vista esterno (economico, certo, ma prima ancora pastorale) permette forse di pensare che «Foucault non ci parla più del potere». D'altra parte, il tema dell'«esogeneità» al potere implica per Karsenti la ricerca opposta di un fuori che permetta invece una «rivoluzione antipastorale». Quell'investimento politico del concetto di fuori - che segnava già il lavoro di Foucault negli anni '60 e che veniva esplicitamente mutuato da Maurice Blanchot - è senz'altro di grande fascino ma lascia un po' perplessi: non è forse contemporanea di questi corsi al Collège de France la convinzione più volte ripetuta dal filosofo che «il margine è un mito» e che «la parola del di fuori è un sogno che non cessiamo di riproporre»? E rimanere all'interno di una lettura che contrappone il «dentro» al «fuori» - anche a patto di distinguere un fuori «interno» e un fuori «esterno» (la possibilità di una rivoluzione antipastorale) non porta alla riproduzione del vecchio schema sullo spazio disciplinare che le nuove analisi del governo biopolitico della vita erano volte a superare? Da questo punto di vista, l'intervento di Chignola, che prende spunto dalla lettura foucaultiana del testo di Kant Che cos'è l'Illuminismo? è di particolare spessore nella misura in cui permette di cogliere ciò che in Foucault si presenta allo stesso tempo come riconoscimento delle determinazioni storiche, sociali, economiche, epistemiologiche che danno forma al nostro presente, e come possibilità di una «internesteriorità» (il neologismo di Chignola non è così distante dalla «piega» deleuziana o dalla figura del nastro di Moebius che tanto piaceva a Lacan), di una «attualità» che valga come differenza possibile.
Foucault, in uno dei due testi che dedica a Kant, parla di franchissement possible, laddove franchir significa allo stesso tempo varcare, entrare e oltrepassare. La vecchia traduzione italiana del testo, ripresa qui da Chignola, propone invece, in modo asssai infelice, «superamento», come se il fantasma dell'Aufhebung hegeliana non fosse sempre in agguato. Ma ciò tuttavia rimane centrale nella elaborazione presentata in questo volume è la sottolineatura di un'ontologia dell'attualità definita come «liberazione dei possibili dalla genealogia di un presente di cui viene svelata la contingenza, l'intima struttura temporale». I problemi del tempo, della storia e della storicizzazione sono precisamente al centro del testo di Alessandro Pandolfi.

Le maschere del potere

In un saggio di lacuni anni fa Dominique Seglard contrapponeva lo storicismo di Meinecke (che egli stesso riconosceva essere nato dallo «spirito costantemente attivo del platonismo») a quello di Foucault, secondo il quale è necessaria l'evenementalizzazione degli universali attraverso la loro iscrizione in complessi pratici. E' proprio quella decostruzione «storico-evenemenziale» che Pandolfi sceglie di applicare al concetto di popolazione, mostrando come la «natura» della popolazione sia a sua volta il nucleo centrale della politica moderna. La costruzione storico-politica dell'universalità della natura come fondamento di una governamentalità biopolitica - che a sua volta si applica ad un nuovo découpage, quello della popolazione come insieme di viventi avendo in comune uno o più caratteristiche naturali - viene restituita da Pandolfi per quella che è: «Le positività non si giustificano da sé, non sono verità e realtà autoevidenti. (...) L'accettabilità di un universale o di una categoria ratifica la naturalizzazione e normalizzazione della loro arbitrarietà dal punto di vista epistemologico e della loro violenza sotto il profilo politico». Un modo per ricordare, forse, che lungi dall'essere scomparso nella biopolitica, il potere costruisce nuove maschere - la natura, l'impolitico, la vita - e dispiega nuove reti. E che il compito che Foucault ci lascia è precisamente di rendere visibile ciò che ha fatto della propria invisibilità il segno della sua efficacia.




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