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La potenza della povertà
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Marx legge Spinoza
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Il manifesto - 29 aprile 2006
Il Moro nella filigrana dell'ebreo di Amsterdam
Il loro più grande insegnamento è una filosofia come resistenza e non come vacua invettiva contro l'alienazione generata dal capitalismo
Un sentiero di lettura alla ricerca dei rapporti tra Marx e Spinoza. Storia di un rapporto accidentato e mai del tutto chiarito Ma è con Louis Althusser che l'elaborazione punta a usare l'autore dell'«Etica» per trovare una via d'uscita alla crisi del marxismo
Filippo Del Lucchese
Vittorio Morfino
«Non scegliamo i nostri maestri, come non scegliamo il nostro tempo». Con queste parole Althusser si richiama - o meglio si «accusa» - di spinozismo oltreché di marxismo, nel rapporto al tempo stesso contingente e necessario con i «suoi» autori. Ma la suggestiva indicazione althusseriana calza perfettamente anche al rapporto fra Marx e Spinoza. Ed è un'indicazione che, naturalmente, va ben oltre il rapporto fra il «moro» di Treviri e l'«ebreo-maledetto» di Amsterdam. Quali sono le domande che poniamo a un testo? In quale prospettiva scegliamo di interrogarlo? Quali sono i testi che costituiscono l'invisibile trama che ci ha spinti a porre proprio quelle domande a un autore, proprio in quel modo e proprio a lui? Come scrive Marx nell'Ideologia tedesca, la mistificazione è nella domanda ancora prima che nella risposta. Affrontare la questione del rapporto Marx-Spinoza significa al tempo stesso affrontare l'impossibile linearità di ogni tradizione e di quella materialistica in particolare, il suo procedere per scarti, per perdite, per mistificazioni e invenzioni.
La continuità fra Spinoza a Marx è stata posta dalla tradizione posteriore e dal marxismo in particolare, che equivocandone spesso il pensiero, ha sempre considerato il filosofo dell'immanenza radicale come un punto di riferimento imprescindibile. Engels, ad esempio, per la sua concezione dialettica della natura, o ancora Labriola, Mondolfo, Banfi. Ma è con Louis Althusser che il riferimento è divenuto centrale, nel tentativo di trovare nello spinozismo gli strumenti concettuali per risolvere la crisi del marxismo. Nasce qui il suo celebre détour attraverso Spinoza, per vedere più chiaro nel détour compiuto da Marx attraverso Hegel. La posta in gioco per Althusser è il tentativo di svincolare il marxismo dal modello dialettico allora dominante sia nelle versioni sovietiche sia in quelle occidentali.
Qualche anno dopo, Antonio Negri ne L'Anomalia selvaggia (pubblicata nel 1981 e ora riproposta da DeriveApprodi) e Il Potere costituente (Manifestolibri) delinea un filone «maledetto» e alternativo alla filosofia moderna dominante, del contratto sociale e del soggetto borghese. Un filone che, inaugurato da Machiavelli, prosegue proprio lungo la linea tra Spinoza e Marx.
Una presenza da svelare
Tuttavia, malgrado questa insistenza sull'importanza di Spinoza per la definizione della concettualità marxiana, uno studio sistematico sul rapporto con Marx non era ancora stato scritto. Ci provano oggi Franck Fischbach in La production des hommes. Marx avec Spinoza (Presses Universitaires de France, pp. 158, 21, non ancora tradotto in italiano) e Margherita Pascucci in La potenza della povertà. Marx legge Spinoza (ombre corte, pp. 137, 13). Gli autori partono da un diverso approccio. Se la Pascucci tenta di adottare un punto di vista più filologico e ricostruttivo, ritenendo possibile seguire il filo rosso della presenza di Spinoza nell'opera di Marx, Fischbach sottolinea invece il carattere disperso e frammentario della sua filosofia, rinunciando a una ricostruzione complessiva. Egli sceglie quindi di «isolare», nel senso chimico del termine, o di «rivelare», in senso fotografico, la presenza di Spinoza e più in generale la filosofia di Marx all'interno degli elementi non filosofici: «facciamo 'come se' l'Etica di Spinoza avesse offerto a Marx la propria ontologia, o 'come se' Marx avesse trovato in Spinoza la propria filosofia prima, per vedere quali effetti questo produce nella lettura di Marx». Un'ipotesi simile, come sostiene Pierre Macherey, a quella che ha guidato i lavori di Althusser.
Seppure per strade diverse, comunque, entrambi convergono in una tesi storiografica di fondo, costruita intorno all'idea di una fortissima continuità del pensiero di Marx dalle opere giovanili fino alle più mature: dai Manoscritti economico-filosofici del 1844 attraverso i Grundrisse, fino a Il Capitale per Fischbach, addirittura dalla tesi dottorale «Sulla differenza di natura in Democrito e Epicuro» e, naturalmente, dagli appunti marxiani sul Trattato teologico-politico di Spinoza per Pascucci.
Durante il periodo berlinese, Marx trascrive alcune parti delle lettere e del testo spinoziano, rimontandolo in un ordine diverso dall'originale. In questo Quaderno Spinoza (Bollati Boringhieri), letto in parallelo alla tesi su Democrito ed Epicuro, sarebbe già presente per Pascucci la concettualità del «Capitale». L'autore del «Trattato», insieme a Epicuro, sarebbe il cuore teorico delle opere maggiori, nel rifiuto di una prospettiva alternativa e progressista in cui, con Hegel al centro, Spinoza sarebbe l'anticipazione e Marx il compimento.
Il rifiuto di questa lettura progressista e la prospettiva di un'«altermodernità», come sottolinea Negri nella prefazione, sono senz'altro un merito dello studio di Pascucci. La mancanza di commenti da parte di Marx alla trascrizione del testo spinoziano rende difficile, anche se non impossibile, un'interpretazione, tentata ad esempio da Alexandre Matheron, che giunge a delle conclusioni molto prudenti: «Che cosa concludere? Per quel che concerne il pensiero di Marx nel 1841, proprio nulla, perché non sappiamo che cosa contava di fare del suo montaggio». Bisogna aggiungere che, negli stessi anni, Marx trascrive testi e compone quaderni dedicati anche ad altri autori, come Hume, Leibniz, Rosenkranz e Aristotele. Un'interpretazione teorica totalizzante, quindi, a partire da questi estratti privi di un vero e proprio commento, appare davvero azzardata.
Il plusvalore di Epicuro
Pascucci, invece, ritiene possibile isolare alcuni concetti trovando addirittura l'anticipazione del «Capitale», nella sua forma compiuta, nella riflessione su Spinoza ed Epicuro: «il tempo del plusvalore trova il suo inizio già nell'analisi marxiana del tempo in Epicuro, oggetto della sua tesi di dottorato. L'inizio è negli anni 1839-1841, quando Marx scrive la sua dissertazione e annota i passaggi sopra citati da Spinoza». Concentrandosi sugli appunti e sulla tesi di un ventenne, seppure molto dotato, questa interpretazione rischia, nel migliore dei casi, di sottovalutare le esperienze giornalistiche e politiche, così come i lunghi anni di studio alla British Library e la potenza teorica dell'invenzione del concetto marxiano di plusvalore.
Fischbach è più prudente nell'interpretare il rapporto fra Marx e le sue fonti. Al centro della sua analisi troviamo un confronto più diretto con Hegel e con ciò che in Marx, di spinozista, entra in tensione con Hegel. Fischbach ritiene corretta l'affermazione di Althusser secondo cui lo Spinoza presente in Marx deriverebbe da Hegel e dall'idealismo. Tuttavia, la tesi è che Marx cercherebbe allo stesso tempo in Spinoza gli strumenti teorici per «uscire» da Hegel, cioè per criticare radicalmente la metafisica idealistica e la filosofia moderna della soggettività. Il soggetto moderno sarebbe la vittima del processo di alienazione e di spoliazione a cui lo ha sottoposto il capitale, distruggendo l'uomo che invece, nelle epoche precedenti alla produzione capitalista, si trovava in un rapporto vitale con la natura. Viveva, cioè, in un rapporto produttivo e immediato col frutto del proprio lavoro. La spoliazione e l'estraneità agli oggetti naturali, nel capitalismo, sono il sintomo della povertà in cui è ridotto il lavoratore quando diviene soggetto.
Fischbach utilizza Spinoza per interpretare il comunismo come un'esperienza etica produttrice di umanità: un'attività di distruzione del soggetto immiserito dai rapporti capitalistici, parallela a un'attività di «produzione di sé a mezzo di sé». Appoggiandosi a uno degli ultimi scritti di Marx - le «Note marginali sul "Trattato di economia politica" di Adolph Wagner» -, Fischbach insiste sulla radicalità della tesi di un'intima coappartenenza tra uomo e natura. Poiché l'uomo è un essere di natura e poiché questo rapporto è radicalmente immanente fin dalla sua origine, su un piano di radicale immanenza dovrà pure svilupparsi il percorso di liberazione. L'«umanizzazione del mondo», che Fischbach ritiene la parola d'ordine spinoziana contro ogni forma di idealismo, dovrebbe realizzarsi su un piano immanente di rapporti, relazioni, costruzione di una diversa organizzazione dell'«essere-nel-mondo».
Un'eccentrica traduzione
Un tentativo analogo di pensare la trasformazione nell'immanenza è quello compiuto da Pascucci, nel mettere al centro il concetto deleuziano e bergsoniano di «virtualità». Questa, eccentrica traduzione dal greco dynamis, permetterebbe di ricostruire non solo la presenza di Spinoza in Marx, ma anche di risalire alla virtualità dei presocratici, di Platone e di Aristotele. Permetterebbe, inoltre, di comprendere perché il «produrre la storia come virtualità, significhi produrre nuove prassi politiche e nuove coordinate per la realtà di ogni singolo sviluppo della forza di vita». Ma la potenza spinoziana non ha alcun grado di parentela con la dynamis aristotelica o platonica, se non nella sua critica e nel suo rovesciamento. Né quella potentia può immediatamente essere letta come virtualità, schiacciando Spinoza sulla terminologia, più che sull'interpretazione, dello stesso Deleuze. Pascucci legge invece il Quaderno Spinoza come matrice di questa virtualitas, fino a utilizzare un'espressione latina («historia cognitio, secundum potentia et virtualitas»), che non si trova nel testo spinoziano. La potenza come virtualità o come povertà, quindi, nel senso in cui «è libera dal possesso perché sa che l'essere relativo è comune , che il comune non è appropriabile e non è privazione, ma è dirompente espressione di sé», appare come una declinazione vitalistica, a cui il testo di Spinoza è del tutto estraneo. Confinate su un piano puramente teorico, questo tipo di letture si sganciano dalla prospettiva materialistica, per divenire uno dei tanti racconti filosofici di emancipazione immaginaria, in cui una vita sovrabbondante avrebbe la meglio sul dominio del capitale dentro l'orizzonte teleologico della prassi trasformatrice.
Che una simile teleologia sia presente, in alcuni passaggi ben noti di Marx, non può essere negato. Ma questo dimostra piuttosto la discontinuità che la continuità con Spinoza. La storia del materialismo è anche storia di fraintendimenti, di incomprensioni, di perdite. Marx conosceva Spinoza in modo soltanto superficiale. In ogni caso non lo ha mai considerato un interlocutore filosofico privilegiato. Si tratta allora, forse, di indirizzare lo sforzo teorico in un altro senso. Non quello di cercare una continuità dove essa non c'è, quanto piuttosto quello di «forzare» il testo di Marx attraverso Spinoza. Far agire un Marx contro l'altro: quello aleatorio, secondo la bella formula di Althusser, contro quello dialettico e teleologico.
Solo così eviteremo di perdere il contributo di un altro autore fondamentale per la storia del materialismo, cioè di Machiavelli. Non si tratta di cercare nella filosofia il segreto della storia e del suo sviluppo, la povertà come potenza che, per Pascucci, sovverte la povertà del capitale, oppure l'«umanizzazione del mondo» di Fischbach, che Marx ha trovato senz'altro in Feuerbach (lui sì, grande interprete di Spinoza) senza dover risalire all'ebreo di Amsterdam. Si tratta piuttosto, attraverso la filosofia, di reperire strumenti per «andar dietro alla verità effettuale della cosa», secondo la potente espressione machiavelliana. Una filosofia intesa come resistenza - uno dei più grandi insegnamenti di Spinoza come di Marx - non può essere schiacciata sul racconto filosofico dell'affermazione dell'essere o su una stanca filastrocca dell'alienazione e della pienezza ritrovata. È invece l'immaginazione di strategie adeguate di resistenza e di lotta a partire dalla realtà effettuale che il concetto rende possibile pensare, ma che non può risolvere nella sua dialettica. Questo il rischio senza alcuna garanzia dell'intervento nella congiuntura, il rischio della lotta politica.
Liberazione - 3 maggio 2006
Marx e Spinoza, la potenza della povertà
di Girolamo de Michele
In un recente dibattito con Negri sul nuovo ordine della globalizzazione, Danilo Zolo confessava il suo imbarazzo nel confrontarsi col pensiero marxista, dal quale aveva preso le distanze per la sua irriducibile avversione ai suoi “tre pilastri teorici”: la filosofia dialettica della storia con le sue “leggi scientifiche”, la teoria del valore-lavoro come premessa delle rivoluzioni comuniste, la teoria dell’estinzione dello Stato e il connesso rifiuto dello Stato di diritto e della dottrina dei diritti soggettivi. La risposta di Negri era che se il marxismo potesse essere ridotto a quei tre “pilastri”, lui stesso non sarebbe marxista. Nella stessa discussione Negri ricordava di essere andato a “sciacquare in Senna” i suoi panni, cercando di ibridare il marxismo operaista con le prospettive del post-strutturalismo francese, e al tempo stesso di aver cercato di recuperare al marxismo quella linea materialistica che “da Machiavelli porta a Spinoza e a Marx”. Una linea interpretativa che non è solo libresca, ma si è costituita nelle pratiche sociali dell’ultimo fine-secolo e che può, diversamente da altre tradizioni marxistiche, confrontarsi a pieno titolo con i movimenti globali del nuovo millennio. A confermare la produttività di quella ricerca arriva ora un libro di Margherita Pascucci, La potenza della povertà. Marx legge Spinoza (Ombre Corte, pp. 137, euro 13,00) e presentato dallo stesso Negri. Uno studio che sembra essere l’anticipazione di una più ampia ricerca, e che mette al fuoco una grande quantità di materiale, a dispetto dell’agile dimensione del testo. Il cuore della ricerca di Pascucci mi sembra potersi riassumere nella distinzione tra miseria e povertà, e nella lettura della povertà all’interno del concetto di potenza (dynamis). Potenza è possibilità di essere, manifestazione di una natura aperta al possibile, laddove miseria è l’impotenza di una condizione umana ridotta all’interno delle leggi del valore. Ovvero: potenza è possibilità di essere, miseria è riduzione dell’essere plurale all’insignificanza del valore, alla schiavitù dell’economico. «Ogni volta che il povero viene definito attraverso la mancanza, si ristabilisce l’impotenza della povertà»: il furto della propria dynamis/potenza, della propria capacità di essere e di produrre che, in modo collettivi, ristabilisce la capacità di vivere di ognuno. In questo senso "potenza" coincide con "virtù", e si contrappone al valore determinato dallo scambio: «Mentre la virtù è un mezzo di accordo delle differenze, una composizione del singolo con il tutto, l’integrazione di lavoro manuale e lavoro intellettuale, del pensiero nella prassi, il valore è l’espressione della frammentazione dell’essere: il segno della proprietà, della schiavitù e della monarchia. Il segno della povertà politica». In altri termini, Pascucci sembra alla ricerca di una chiave filosofica in grado di leggere il tema della “dignità” nei movimenti che si oppongono al nuovo ordine globale - pensiamo soprattutto ai movimenti del Sudamerica, ma anche all’India, alle insubordinazioni contadine e operaie nella Cina - a partire dalla rivendicazione della propria vita, e non dalla rancorosa ricerca di quella mancanza che si traduce in teoria del bisogno, e che è già un’accettazione implicita della prospettiva dell’avversario. E di questa chiave Pascucci cerca anche di ricostruire una genealogia, che spazia dal materialismo lucreziano sul quale si esercitava il giovane Marx alla potenza del corpo in Spinoza (altro "livre de chevet" del giovane filosofo di Treviri), fino al pensiero del virtuale e della filosofia come "teoria delle molteplicità" di Deleuze (e con interessanti spunti sul pensiero antico, che meriterebbero una più distesa trattazione). Sintetizzando, si tratta di leggere la pienezza del nostro essere - un essere molteplice e multiforme, dinamico e collettivo - a partire non dallo scambio tra vita e valore, cioè alla mera equivalenza determinata dallo scambio economico, ma dall’equivalenza tra essere e potenza di essere, tra realtà in atto e possibilità, che è anch’essa reale. Tra lo stato di cose esistente e la virtualità come creazione e distribuzione (Deleuze). Qui si apre uno squarcio all’interno di quel pensiero della crisi che, attraverso l’accettazione dell’orizzonte temporale heideggeriano, infiorava l’accettazione delle catene mondo come è e come non può che essere, riducendo la prospettiva di una vita più degna alla mera "migliore amministrazione" dell’esistente. Al contrario, la tradizione post-operaista - una tradizione che non è eredità del passato, ma che si è fatta e si fa da sé nelle pratiche - sa che la temporalità non è orizzonte ma costituzione, come ribadisce Negri: costituzione costrittiva del tempo come tempo di lavoro o costituzione del tempo come liberazione della potenza del collettivo, accettazione del corpo come un dato o autopoiesi dei corpi secondo linee dettate dalle potenze liberatorie del desiderio.
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