Descrizione
Atanasio Bugliari Goggia
Rosso banlieue. Etnografia della nuova composizione di classe nelle periferie francesi
“Siamo dinanzi a un testo che, da un lato, sottrae la periferia alle estetizzazioni e ai desideri e, dall’altro, non lesina di scandagliare criticamente molta della letteratura teorica prodotta negli ultimi decenni alla ricerca delle inadeguatezze. Il risultato è un libro tanto colto quanto concreto, ovvero iscritto nella realtà dei quartieri, dei luoghi di lavoro e delle esistenze di chi li abita” (dalla Prefazione di Pietro Saitta).
“Rosso banlieue” come capovolgimento del mito tipicamente socialdemocratico della banlieue rouge, ma non solo. Rosso come il colore del sangue proletario che sporca quotidianamente l’asfalto delle periferie, effetto delle cosiddette “bavure” poliziesche. Una mattanza che assume i contorni di una vera e propria guerra civile strisciante. Rosso come il colore degli incendi che si scorgono sullo sfondo delle periferie ogni volta che la rabbia a lungo repressa e la consapevolezza dell’inutilità della protesta “democratica” sfociano in aperta lotta di classe. Rosso, infine, come tentativo di riportare al centro del dibattito la questione sociale, nella misura in cui alle banlieues ci si riferisce esclusivamente con quel lessico postmoderno che, al di là delle angolazioni, richiama senza sosta presunte questioni “razziali”. Che si affronti il tema banlieue in termini di multiculturalismo, comunitarismo, ghettizzazione, integrazione, essenzialismo, il problema pare risiedere sempre nel colore della pelle e mai nell’appartenenza di classe dei suoi abitanti.
Rosso come volontà, in definitiva, di rimpiazzare la posticcia divisione cromatica blanc/black/beur con un’immagine – un colore – che racchiude il sentire profondo delle periferie, connotato da una limpida coscienza di classe che fa tabula rasa delle beghe etno-razziali per riportare al centro dell’attenzione il tema del lavoro e dello sfruttamento.
Atanasio Bugliari Goggia si occupa di temi relativi al mutamento sociale metropolitano, con particolare attenzione alle dinamiche di opposizione organizzata e alle tecniche di controllo sociale all’interno dei contesti urbani. Attraverso il metodo etnografico, con l’ausilio dell’osservazione partecipante e delle storie di vita, ha indagato le realtà antagoniste di Torino, Bologna, Parigi e Montpellier. Servendosi della tradizione orale e delle fonti d’archivio e giudiziarie, ha condotto ricerche sulle morti da amianto in Italia e Svizzera e sull’emigrazione italiana in Svizzera. Tra i suoi lavori: Outsiders metropolitani. Etnografia di storie di vita sovversive (Armando 2007).
RASSEGNA STAMPA
Infoaut – martedì 29 novembre 2022
Rosso banlieue: il politico nella periferia – Intervista ad Atanasio Bugliari Goggia
Atanasio Bugliari Goggia è autore di un libro uscito qualche mese fa che si chiama Rosso banlieue – un volume che si compone sostanzialmente di due parti: una parte più teorica e una invece più di racconto/restituzione di quella che è una ricerca, un’inchiesta potremmo dire, che Atanasio ha svolto nella banlieue nord-est di Parigi un po’ di anni fa – tra il 2011 e il 2013.
Da lì nasce questo corposo volume di quasi 500 pagine, ma che si legge davvero molto bene ed è un tipo di indagine che abbiamo molto apprezzato perché propone un punto di vista politico militante originale e graffiante su quello che è uno degli scenari più importanti dal punto di vista del conflitto di classe in Europa degli ultimi almeno quindici se non vent’anni – quello appunto delle banlieues francesi, più nello specifico delle banlieues di Parigi, quindi chiederei per iniziare ad Atanasio un po’ di raccontarci la storia di questo libro.
Atanasio: Questo lavoro nasce come volontà di mettere in risalto le cause che avevano spinto i giovani delle banlieues a muoversi all’azione in vari cicli di proteste – il più importante nel 2005 ma anche successivamente nel 2007 e nel 2009. L’idea di fondo che mi muoveva si basava sull’ipotesi che tutto quanto venisse messo al centro come causa delle rivolte dal mondo accademico, giornalistico e spesso anche da quel mondo militante che in Francia non vive le contraddizioni delle periferie, non cogliesse la profondità degli eventi e dunque la mia ricerca si poneva nell’ottica di indagare se fossimo in presenza di nuove forme di impegno politico sulla scia dell’ipotesi che le trasformazioni del modo di produzione capitalistico avessero parzialmente modificato i repertori di azione di un impegno militante che si trasformava ma rimaneva sempre vivo. Infatti l’assunto di partenza – confermato dai 18 mesi di indagine etnografica con l’ausilio dello strumento della conricerca – era che l’impegno militante lungi dallo sparire avesse piuttosto modificato parzialmente la propria maniera di esprimersi.
Al contrario delle retoriche del vuoto politico o della ghettizzazione o islamizzazione delle periferie come cause delle rivolte, io sono andato a vedere innanzitutto se ci fosse un movimento politico al suo interno, di che tipo di organizzazione fosse eventualmente munito, che linee col passato potesse vantare e che anticipazioni del futuro potesse offrirci. Come detto, l’inchiesta è stata di tipo etnografico, sono rimasto 18 mesi in due periferie a nord-est di Parigi: prima a Clichy-sous-Bois a contatto con quei petits che erano stati per la maggioranza i protagonisti degli eventi del 2005. In questa prima fase – 2011 – il mio ruolo da ricercatore era coperto: passavo le serate coi ragazzini e quando loro mi chiedevano i motivi del mio vivere in una banlieue tra virgolette sfigata gli raccontavo che ero un italiano da poco in Francia, che lavoravo all’ambasciata ma con un ruolo di basso profilo, centralinista, non potendo dunque permettermi di vivere nella piccola Parigi.
La seconda fase è stata invece caratterizzata da una militanza a tutto tondo nei gruppi organizzati di banlieue, usufruendo di un appartamento popolare messo a disposizione da un militante a Aulnay-sous-Bois, nella cité des 3.000. La mia idea era di usare la sociologia dell’azione come metodo di ricerca, scelta tuttavia rifiutata dai militanti e dalle militanti perché considerata ambigua, avendo loro già avuto esperienze di questo tipo con altri ricercatori dai quali si erano sentiti sfruttati per tornaconti accademici ma soprattutto negati nella loro necessità di far uscire aspetti chiave della militanza in banlieue. Dato che molti e molte tra i compagni e le compagne di banlieue avevano tra i propri riferimenti l’operaismo italiano, ci è sembrato utile servirci della conricerca di Alquati sull’ipotesi che tra compagni e compagne ci si riconosce oltre le appartenenze geografiche, poiché simili gli orizzonti e le contraddizioni che si vivono aldilà del contesto di riferimento.
Per venire brevemente ai risultati della ricerca, semplificando all’estremo, la mia idea è che le periferie francesi in quel frangente abbiano rappresentato una sorta di test per un sistema che viveva una crisi di profitti pesante – e forse irreversibile – con la conseguenza che si assistesse, da un lato, a una trasformazione in senso peggiorativo delle forme di lavoro a garanzia del plusvalore e, dall’altro, come diretta conseguenza, le periferie costituissero un test anche per sondare gli effetti in termini di resistenza a nuove forme di controllo disciplinare necessarie ad arginare la crisi di profitto, nella misura in cui le banlieues oltre a essere i luoghi del lavoro erano anche i siti dove la classe sfruttata aveva dimostrato nei decenni capacità non indifferenti di rivolta.
In altri termini, la partita che si giocava in banlieue ad opera del potere economico chiamava in causa, anticipandole, tanto una riorganizzazione delle forme di lavoro – che assumevano tratti di vero e proprio schiavismo – in una fase di caduta dei profitti, quanto, e conseguentemente, nuove forme di disciplinamento contro una novella classe operaia, allo scopo di renderla docile ed ubbidiente a questi nuovi processi produttivi. Il potere ha in definitiva testato in banlieue sia le nuove forme di lavoro che gli effetti che queste – associate alla necessità di ridefinire nuovi modelli disciplinari di messa a lavoro – avrebbero prodotto in termini di capacità di reazione della classe. Non è in tal senso un caso che i cicli di rivolta più importanti abbiano di poco preceduto o seguito lo scoppio della crisi del 2007.
Dall’altro lato della barricata tuttavia lo sterminato proletariato di banlieue non stava a guardare, provando ad agire rivolta contro questi processi in atto, sospinto da solidi legami di solidarietà che si inserivano nel solco di una potente visione di classe dei rapporti economici e sociali fatta propria dalla maggioranza degli abitanti.
Ho intravisto il politico nelle periferie a partire dunque dalla reazione di massa alle nuove condizioni di lavoro che irrompevano in questi luoghi, tentando di smontare quella retorica, propria anche di molti militanti, che guardava alle periferie come ai luoghi del non-lavoro, della disoccupazione, legando dunque le rivolte all’inoccupabilità piuttosto che al peggioramento delle condizioni di sfruttamento all’interno dei processi produttivi. In banlieue, al contrario, sono entrato in contatto con un mondo pienamente inserito nelle strutture produttive, che si rivoltava proprio come reazione alle contraddizioni che questo sistema portava a galla in una fase di crisi dei profitti. Sul piano micro, dell’agire politico degli abitanti di banlieue, ho preso spunto da una serie di autori, ad esempio James Scott e Michel de Certeau, che erano stati in grado di intravedere il politico oltre la superficialità di un agire quotidiano apparentemente neutro o accondiscendente, capaci sostanzialmente di offrire una visione più ampia dell’agire politico dei gruppi più o meno organizzati, che prendesse in considerazione anche attività che a prima vista potrebbero apparire prive di contenuto politico.
La conclusione è stata che all’interno delle banlieues esista una sterminata classe sociale riconducibile senza esitazioni al proletariato e sottoproletariato metropolitano più che al lumpenproletariat inoccupato e inoccupabile, una novella classe operaia, con tutte le tare del caso, impiegata in lavori precari e malpagati che nella sua componente giovanile più attiva nelle rivolte era munita di una straordinaria coscienza di classe, ossia era ben consapevole di appartenere al gradino più basso della società, sapendo anche individuare i responsabili di questa condizione. Il tentativo che portavano avanti i militanti e le militanti più coscienti e organizzati/e di banlieue consisteva nella volontà di far progredire questa coscienza di classe in coscienza politica, cioè fornire gli strumenti perché i banlieusards prendessero consapevolezza della possibilità di poter modificare la propria condizione non solo attraverso rivolte temporalmente circoscritte ma anche attraverso un lavoro politico di lunga durata. Il lavoro della talpa.
A partire da questo, una seconda questione legata diciamo così alla soggettività che hai trovato, a che profili hai incontrato nel tuo percorso nelle due banlieues parigine.
Atanasio: C’è da fare una prima distinzione, come accennato in precedenza, tra quei collettivi e gruppi di banlieue che si muovevano nel solco della militanza politica organizzata, e l’insieme del proletariato che viveva in queste periferie. Quest’ultimo rimandava all’idea di una specifica classe sociale che non era fuori dal contesto produttivo, ma al contrario veniva investito da tutte le contraddizioni della fase, che faceva fatica ad arrivare alla fine del mese, che per la prima volta si ritrovava in condizioni peggiori dei propri genitori e che per inciso non riusciva ad avere possibilità alcuna d’ “en sortir” neppure attraverso lo studio – perché una delle tante cose non vere, dei miti che circondano le banlieues riguarda il supposto basso tasso di scolarizzazione, che in realtà non si discosta in maniera significativa da quello dei centri cittadini. La scuola raffigura semmai un altro aspetto del controllo sociale agito nei confronti della periferia.
Si assisteva in definitiva a una condizione generalizzata di impoverimento che investiva in primo luogo le periferie perché storicamente bacino di manodopera a buon mercato, luoghi di assegnazione per antonomasia del proletariato. E questo rappresentava anche un elemento di forte divisione coi movimenti di città: non so se avremo tempo di ritornarci perché sull’incompatibilità che regnava tra i cosiddetti movimenti bianchi della piccola Parigi e i movimenti più o meno organizzati di banlieue dedico molte pagine nel libro.
Un altro elemento portante della periferia era la capacità di costruire solidarietà tra gli abitanti perché ricordiamoci che le rivolte nel 2005 avevano avuto una partecipazione estesa ma anche una condivisione estesa: lo dimostravano i pochi arresti, come il dato che nessuno tra i pochi arrestati avesse dei precedenti penali. Quindi si trattava di una popolazione intera, la classe nel suo insieme, che si muoveva all’azione a partire da condizioni di vita e di lavoro non più sopportabili. Sullo sfondo di un controllo poliziesco e sociale dai tratti micidiali. In tutto questo, sia detto per inciso, il fattore razziale più che un problema a se costituiva una tra le controtendenze messe in campo dal potere per spaccare la classe al suo interno. La dicotomia razza/classe in banlieue, troppo complessa da spiegare nell’intervista, ha rappresentato uno dei fili della ricerca poiché sempre presente nei discorsi e nell’agire dei militanti di banlieue, nonché causa di fratture interne e con i movimenti di città, ed è per questo che alla questione abbiamo dedicato l’intero capitolo 7 del libro: “Teoria postcoloniale e retorica multiculturalista”.
In tutto ciò, l’elemento che più colpiva, costituendo la molla che spingeva all’azione, richiamava la capacità degli abitanti di tessere legami di solidarietà sulla base di una chiara appartenenza di classe. La solidarietà emergeva in ogni discorso e in ogni azione, rappresentando il carburante che spingeva alla lotta, in quello che nel testo definisco come legame circolare tra racconti di umiliazione che girano in banlieue – odio di classe subito dagli sfruttati – e capacità di rivolta degli sfruttati.
L’appartenenza di classe si stagliava come dato assodato in ogni racconto: nel libro riporto qualcuno dei dialoghi con i petits di 14/15 anni, discorsi sempre improntati sulle difficoltà a lavoro o a scuola, sui genitori in cassa integrazione, su un fratello finito in un ospedale psichiatrico, sulle sorelle che lavoravano a chiamata, sul vicino di casa brutalizzato dalla polizia.
Ti chiederemmo una considerazione finale, più se vogliamo tra virgolette politica, rispetto a una traiettoria temporale che tu già accennavi: 2005 l’esplosione delle banlieue (che però come sappiamo in realtà aveva anche dei “illustri precedenti”); poi 2007 2009; ma in qualche modo negli ultimi 15-vent’anni la Francia è stato un forse il paese europeo con lo scontro di classe e sociale più elevato, che ha visto soggetti appunto come i/le banlieusard, ma anche movimenti sociali più di città come li chiamavi, o anche il fenomeno dei gilet jaunes, che in qualche modo è stata una terza se vogliamo componente. Ti chiederemmo insomma una considerazione sull’oggi. Se sai se si muove qualcosa, quale può essere il lascito di questi conflitti.
Atanasio: Come detto in precedenza, il lavoro è datato perché la ricerca sul campo è stata compiuta tra il 2011 e il 2013. Tuttavia nelle conclusioni del libro ho tentato di riportare all’attualità le banlieues attraverso la ripresa dei contatti con una parte di quel mondo con cui avevo militato e cospirato, ricevendo dei flashback sullo stato di salute dei movimenti di banlieue, sulla loro partecipazione ai movimenti dei gilet gialli, sui rapporti coi movimenti di città, eccetera.
Quello che posso dire è che negli ultimi 10-12 anni quella che era la profezia del libro, ossia di una banlieue che avrebbe sempre di più proposto momenti di rivolta e sempre di più in forma organizzata, non si è completamente avverata. Tra le cause annovero sicuramente l’ampliarsi della crisi economica che ha comportato anche una crisi di militanza. Già all’epoca della ricerca c’erano militanti sfiancati dal lavoro politico quotidiano in un contesto complicatissimo, un fenomeno che si è senza dubbio acuito, anche in considerazione dell’acuirsi della repressione.
Come raccontano anche i compagni e le compagne che ho contattato, le banlieues vivono un momento che si può definire di vigile attesa, nel senso che loro come strutture riescono ancora ad essere presenti e aspettano probabilmente un momento buono per muoversi nuovamente all’azione. Questo momento buono tra crisi economica, pandemia e repressione non è facile da trovare. Questo è sicuramente un primo elemento.
Striscione dei Gilet Gialli di La Courneuve, banlieue nella periferia nord di Parigi
Un altro dato, stavolta di segno positivo, è che sicuramente negli ultimi anni c’è stato un riavvicinamento con quelli che sono i movimenti di città: come detto, nel libro tratto a fondo, dalla viva voce dei protagonisti e delle protagoniste, il tema delle relazioni tra movimenti di banlieue – strutturati o che si muovono secondo lo schema che ho definito dello “spontaneismo organizzato” – e i movimenti di città. Ci siamo trovati di fronte ad una separazione netta, ad un muro, una incomunicabilità che io ho interpretato come diversa appartenenza di classe.
Quel nugolo di compagni e compagne che aveva militato sia in città che nelle periferie, era il più critico verso i movimenti di città, evidenziando con forza questa diversa appartenenza di classe. In periferia c’era anche una schiera di militanti che aveva avuto rapporti politici stretti con compagni e compagne in Italia, in particolare a Roma, ed il loro giudizio era netto: se da un lato esaltavano le potenzialità politiche della banlieue – munita di una coscienza di classe eccezionale, molto più che nelle periferie italiane, che col supporto di un lavoro di organizzazione politica sarebbe potuta esplodere in forme difficilmente arginabili da parte del potere – dall’altro evidenziavano come i compagni e le compagne della piccola Parigi avessero difficoltà notevoli a muoversi in direzione delle periferie, al contrario dell’Italia dove ancora i centri sociali o altre realtà riescono a tessere legami politici e di solidarietà in questi territori.
Una situazione come può essere l’Ex-Centrale a Bologna, nelle periferie parigine non la troveresti mai, forse a Marsiglia, un po’ a Lione, ma nel resto della Francia no. Quando esiste, è totalmente autorganizzata dagli abitanti e dalle abitanti.
Negli ultimi anni questo fossato tra movimenti parigini e di banlieue si è in parte ricomposto, un po’ grazie ai movimenti contro le violenze poliziesche che sono riusciti a portare le loro rivendicazioni nel centro cittadino coinvolgendo i movimenti di città, un po’ anche per il fatto che la crisi economica galoppante ha spinto nello stesso cono d’ombra di povertà e repressione anche una fascia non indifferente di militanti di città che solo qualche anno prima poteva contare su privilegi non ancora scalfiti.
Un appunto per concludere. Se c’è un insegnamento che le banlieues possono offrire a noi compagni e compagne in termini di organizzazione, questo va ricercato nella capacità di creare collettivi e organizzazioni di periferia in grado di agire sui disagi concreti degli abitanti. Un agire sui bisogni della propria gente, stimolando coscienza politica ed apprendimento del ruolo militante. Organizzazione di lunga durata e fatica della militanza.
In tal senso, ho avuto la fortuna di militare in vari collettivi di periferia che si muovevano nei più svariati ambiti. Si trattava di nodi locali di una più ampia rete nazionale. Delle caratteristiche specifiche dei gruppi di banlieue e della loro capacità di coordinarsi a livello nazionale ci siamo occupati in un saggio di prossima uscita dal titolo emblematico “Militanti politici di banlieue”: un richiamo non casuale ai militanti di base protagonisti dell’opera di Montaldi.
il manifesto – 30 luglio 2022
Banlieue, identità costituenti sul confine della République
di Guido Caldiron
onde solo un paio di giorni fa, c’è una lingua che sale dalla strada che si va imponendo come pratica diffusa, anche se ancora non è riconosciuta a pieno titolo dai dizionari. Si tratta di ciò che il quotidiano parigino ha ribattezzato come «l’argot des cités», più o meno letteralmente il gergo delle periferie che, specie sulla spinta di milioni di giovani transalpini che in quelle zone sono nati e cresciuti, sta contribuendo a rivoluzionare la lingua di Voltaire.
Eppure, nelle 514 nuove parole che hanno integrato le ultime edizioni dei celebri Larousse e Robert, ben poche hanno seguito il percorso che dal basso conduce, per così dire, all’accademia. «Solo un pugno di termini provenienti dalle cités – notava ancora Le Monde – hanno finalmente fatto la loro apparizione: come go (fidanzata) e babtou (o toubab; bianco in lingua wolof), termini che però nelle banlieue circolano ormai da più di trent’anni».
QUANDO CI SI INTERROGA, a partire dall’orizzonte della politica o della rappresentanza istituzionale dei cittadini, su quanto di ciò che accade nelle periferie sia visibile nel volto pubblico della République, si tende a dimenticare che l’esistenza dei fenomeni non sempre coincide con i codici attraverso i quali si è soliti registrarne lo stato di salute. In altre parole, non necessariamente il fatto che della banlieue si parli solo quando il fuoco della rivolta ne illumina le notti, significa che per il resto del tempo non ci sia nulla di interessante da osservare e descrivere.
E, soprattutto, che non ci siano vite e storie che per il solo fatto di scorrere ogni giorno meritano, e talvolta necessitano, di essere narrate. Non farlo rivela non soltanto della superficialità, e molto spesso anche della malafede, ma una sorta di pericoloso disinteresse per una sorte che con molta difficoltà qualcuno può pensare di separare davvero dalla propria. Anche se il termine «banlieue» indica ormai tutto o nulla, esistono infatti quelle residenziali composte da villette a schiera all’americana, come quelle tutte «barres et tours» dell’edilizia popolare anni Settanta, ispirate talvolta alle bizzarrie dell’architettura moderna, almeno un sesto della popolazione transalpina abita in qualche modo «lontano dal centro». Non solo, si tratta di una tendenza che, complice l’aumento di affitti e prezzi delle case, gentrificazione dei centri storici e magari anche crisi ambientale, non ha fatto che crescere negli ultimi anni.
UN SOLO DATO, per quanto parziale, può aiutare a comprendere la situazione: mentre Parigi «città» perde ogni anno decine di migliaia di abitanti, gli ultimi dati parlano di circa 2 milioni e 200mila persone residenti all’interno del Boulevard périphériques, la zona della Seine-Saint-Denis, la grande corona periferica del Nord della capitale supera ormai il milione e 600mila residenti. Come a dire che Parigi conta ormai una sorta di «doppio» in banlieue e che le due realtà, come raccontano del resto da decenni romanzi, film e canzoni prima ancora che le cronache politiche o sociali, non cessano di osservarsi con esiti spesso davvero imprevedibili.
Se questa è «la mappa» su cui si gioca la partita, è chiaro che anche gli strumenti analitici vanno sintonizzati sul «ritmo della strada». Perché, come spiegava già una ventina d’anni fa Alain Bertho, uno degli intellettuali che meglio hanno affrontato il tema, che è cresciuto e ancora vive a Saint-Denis, «la banlieue è oggi portatrice di un’altra modernità, a cui vanno strette le nozioni tradizionali di inserimento e integrazione. Su questa sfida si misura gran parte del futuro della nostra società».
Al grande rimosso su cosa accada e quali energie, anche politiche, si muovano nella periferia transalpina dedica ora un importante indagine Atanasio Bugliari Goggia: Rosso Banlieue (ombre corte, pp. 478, euro 29, con la Prefazione di Pietro Saitta). Si tratta di un’opera frutto di una ricerca durata più di due anni e che ha visto l’autore risiedere a lungo prima a Clichy-sous-Bois e quindi a Aulnay-sous-Bois, due banlieue parigine al centro di importanti rivolte, e movimenti, nello scorso decennio, che intende illustrare l’«etnografia della nuova composizione di classe nelle periferie francesi». Alla vera e propria ricerca sul campo si intrecciano nel volume un ampio quadro delle principali teorie sociologiche che hanno riguardato il fenomeno ricorrente degli émeutes, le rivolte delle cité, e un’immersione nell’inquadramento marxiano del rapporto tra classe, città e lavoro. Il tutto, arricchito da oltre trenta pagine di preziosa bibliografia.
L’APPRODO DELL’AUTORE riflette su come le periferie siano tutt’altro che dei «deserti politici» e su quanto «al ridimensionamento delle organizzazioni del movimento operaio», abbia corrisposto «l’emersione di altri collettivi: mobilitazioni per la casa e per il diritto alla città, collettivi di educazione popolare e comitati di quartiere, associazioni giovanili, lotte per l’immigrazione e contro la violenza della polizia». Inoltre, si segnala ancora in Rosso banlieue, «oltre a queste forme di autorganizzazione, gli abitanti delle periferie esprimono, ieri come oggi, sentimenti di ingiustizia e rabbia per le diseguaglianze e le discriminazioni che subiscono, a testimoniare una politicizzazione ordinaria, una politica del quotidiano».
UN ASSAGGIO
Indice
7 Prefazione
di Pietro Saitta
11 Nota dell’autore
13 Ringraziamenti
Parte prima. Classe sociale di banlieue: le teorie
17 1. Teorie sociologiche sulle cause delle émeutes
Introduzione; Verso un approccio di classe alle émeutes sullo sfondo dell’assenza di opportunità politiche; Dal subalterno al nemico interno; Classe sociale e liberismo in banlieue; Violenza politica, controllo sociale e disciplinamento; Tra radicalismo politico e riscoperta dell’Islam; Le anime politiche della banlieue; Les casseurs des ghettos; Questione razziale e questione sociale; Lavoro, crisi, solidarietà; Sociabilità e “galère” al tempo della crisi
72 2. Classe sociale e lumpenproletariat: Marx e le teorie sulla classe sociale
Crisi ed esclusione; La maledizione del lavoro; La morte della mobilità sociale; Lumpenproletariat di banlieue; Carne da salario
Parte seconda. Classe sociale di banlieue: la ricerca sul campo
103 3. Questioni di metodo: pratiche di osservazione di un “ricercatore scalzo”
Scendere per strada e guardarsi intorno; Studio sul campo e conricerca; Storie orali; “Persone che sembrano cose”: storia di una ricerca; Una parentesi terminologica; Reti solidali; La decolonizzazione della coscienza
127 4. Movimento sociale di banlieue e solidarietà
Iperfordismo e controsoggettività; Lo spirito del tempo: “un travail de trimard”; Che fine hanno fatto gli operai?; Una cronaca del salariato; Dalla solidarietà alla resistenza; Tattiche e strategie; Il verbale segreto dei diseredati
185 5. Tra controllo sociale e repressione
L’apprendimento di un ruolo; Rompere la solidarietà; A scuola di disciplinamento; Devianza, controllo sociale, disciplinamento; Carcere: emblema dell’organizzazione del potere; Ideologia securitaria e solidarietà di classe; Bouge qui bouge
229 6. Brothers on the block: il disincaglio della coscienza
Black Power: razza e classe, lumpenproletariat; Evoluzione ideologica del Black Power Party; “Nutriamo i giovani e i giovani nutriranno la rivoluzione”; La “soluzione finale”: rompere la solidarietà; “La galleria dei leccapiedi” ovvero “gli autostoppisti della rivoluzione nera”; Crisi del capitalismo: conseguenze su “razza” e “classe”; L’attualità di Fanon
304 7. Teoria postcoloniale e retorica multiculturalista
Critica postcoloniale e attualità dell’urgenza di “provincializzare l’Europa”; Un passato che non passa; La teoria postcoloniale: elementi di fondo e contraddizioni; Il feticcio dell’anti-economicismo; Struttura e sovrastruttura; Ci uccidono oggi, vi uccideranno domani: l’eredità del sapere delle lotte
368 8. La banlieue e la città: gentrificazione e politique de la ville
Di masterplan, rammendi e trasformazioni sociali; Crisi economica, zone “décaties” e controllo sociale: la strategia globale di “rigenerazione” urbana; Le diverse impostazioni teoriche della sociologia e la “panoplia” ideologica; La politique de la ville: a chi serve realmente
421 Conclusioni
445 Bibliografia