Descrizione
Stefano Taccone
La critica istituzionale. Il nome e la cosa
Prefazione di Stefania Zuliani
Il volume analizza oltre quarant’anni di letteratura sulla “critica istituzionale”, espressione dai confini incerti che venne proposta per la prima volta nel 1975 dall’artista concettuale Mel Ramsden. Individuandone la “preistoria” nel discorso di Peter Bürger sulla critica dell’“istituzione arte”, Stefano Taccone costruisce un documentato itinerario critico che giunge fino agli anni più recenti, in cui l’attenzione per la critica istituzionale si è riaccesa. Nel mezzo, le varie tappe di individuazione a posteriori di questa esperienza, un processo che passa dagli scritti di critici come James Meyer, Hal Foster, Benjamin Buchloch, ma anche di artisti come Silvia Kolbowski o Andrea Fraser. Un percorso di ricostruzione da cui emerge quanto varie e discordanti siano le opinioni circa la critica istituzionale, le sue fasi, i suoi protagonisti, il suo oggetto, la sua valenza politica e la sua stessa identità. Alcuni privilegiano l’aspetto conflittuale; altri quello collaborativo. Alcuni si rifanno al canone invalso nel corso dei decenni; altri ipotizzano possibili integrazioni. Alcuni ritengono che il bersaglio siano le istituzioni artistiche; altri vorrebbero fare riferimento alle istituzioni in generale. Alcuni pensano che la critica istituzionale sia un movimento artistico, mentre altri guardano a essa piuttosto come a uno strumento. Di questo dibattito il libro restituisce le voci plurali proponendo un quadro critico puntuale e appassionato.
Stefano Taccone, dottore di ricerca in Metodi e metodologie della ricerca archeologica e storico-artistica, è attualmente docente di storia dell’arte alle superiori. Tra le sue ultime pubblicazioni: la monografia La cooperazione dell’arte (Iod, 2020), il romanzo Sertuccio (Iod, 2020) e la silloge poetica Terrestri d’adozione (Progetto Cultura, 2021). Per i nostri tipi: La radicalità dell’avanguardia (2017) e la cura di Contro l’infelicità. L’Internazionale Situazionista e la sua attualità (2014).
UN ASSAGGIO
Indice
7 Prefazione. Prendere parte
di Stefania Zuliani
13 Introduzione
15 1. Dalla critica dell’ “istituzione arte” alla critica istituzionale
29 2. Cosa è successo alla critica istituzionale?
53 3. Un’istituzione della critica
62 4. La critica istituzionale rivista
82 5. La critica istituzionale e oltre
98 6. Reinventare la critica istituzionale
112 7. La critica istituzionale in antologia
122 8. La critica istituzionale vista dall’Italia
140 9. Avanguardia storica e critica istituzionale
149 Bibliografia
Prefazione. Prendere parte
di Stefania Zuliani
Né movimento né stabile categoria storiografica, tantomeno stile o genere artistico, la critica istituzionale si offre come irrisolto problema fin dalla traduzione dell’espressione originaria (ma c’è poi, davvero, un’origine?), quell’Istitutional critique nominata per la prima volta nel 1975 dall’artista concettuale Mel Ramseden all’interno di un articolo dedicato al problema dell’inquadramento istituzionale della produzione artistica. Che poi sia stata questa l’inaugurale apparizione di una definizione tanto ambigua quanto fortunata, capace di superare i tracolli ideologici e le derive artistiche di fine Novecento ed animare così ancora i discorsi del nostro inquieto global artworld, conta in realtà abbastanza poco: ad essere determinante è piuttosto la molteplicità di voci e di posizioni, le diverse genealogie e famiglie critiche che a partire dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso si sono confrontate attorno ad una questione – quella appunto del riconoscimento dell’ambito e delle prospettive della critica istituzionale – i cui confini appaiono in continua trasformazione.
Così come non è possibile misurare con certezza il corso di un fiume – ce lo ha ricordato Alighiero Boetti, che non ha caso ha stilato con cura un elenco dei mille fiumi più lunghi del mondo – altrettanto impossibile e necessaria appare infatti l’impresa di perimetrare il campo e la durata di un insieme variegato di pratiche artistiche il cui minimo denominatore è l’intenzione di interrogare, di esibire, di contestare, di parodiare e, in alcuni casi, di sfruttare ora le istituzioni dell’arte ora l’arte come istituzione. Un’indicazione, questa, evidentemente insidiosa, troppo larga perché possa veramente inquadrare un orientamento che ha intercettato e fatto propri molti dei temi più discussi all’interno del dibattito critico e della ricerca artistica tra i due secoli. Uno per tutti, quello della site specificity, attorno a cui sono confluite molte delle riflessioni e delle pratiche artistiche che negli ultimi decenni del Novecento hanno riportato al centro dell’attenzione la questione, a lungo rimossa, del contesto della produzione e della fruizione pubblica dell’arte. I tre paradigmi – fenomenologico, socio/istituzionale, discorsivo – individuati da Miwon Kwon nel suo seminale One place after another. Site specific art and locational identity (2002), come pure la più recente proposta di Joanne Morra, che ha affiancato la nozione, sfruttata fino all’esaurimento, di site- specific art con quella di site-responsive art riferita a forme temporanee di intervento artistico che reagiscono al significato di spazi non destinati all’arte contemporanea, non esauriscono certo la molteplicità dei discorsi della critica istituzionale ma non sono neppure estranei agli ambiti e alle procedure di quest’ultima, confermandone la natura proteiforme, la stessa che secondo Adalgisa Lugli appartiene al museo, della critica istituzionale interlocutore (antagonista e complice) privilegiato.
Che il corpo a corpo – una lotta e un abbraccio – con il museo sia uno degli elementi caratterizzanti la costellazione di pratiche riconducibili alla critica istituzionale trova del resto conferma nell’attenzione che gli studi museologici più aggiornati mostrano nei confronti di questa esperienza: per fare giusto qualche esempio, è proprio nella critica istituzionale che Pedro Lorente riconosce un antecedente e un riferimento della museologia critica mentre Janet Marstine, Academic Director per la prestigiosa School of Museum Studies dell’Università di Leicester, muove appunto dalla critica istituzionale per sviluppare la sua riflessione sull’etica e sulle pratiche (auto)critiche dei musei contemporanei, da qualche anno interessati da un processo di decolonizzazione che trova nel progetto Mining the Museum (1992) di Fred Wilson, fra i più noti esponenti della seconda generazione degli artisti della critica istituzionale, un costante elemento di confronto. Neanche agli storici e critici dell’arte è certo sfuggita la centralità del legame con l’istituzione museo, tanto che nell’ormai canonico Art since 900. Modernism, Antimodernism, Postmodernism (2004), Hal Foster, Rosalind Krauss, Yve-Alain Bois, Benjamin H.D. Buchloh, hanno individuato lo starting point della critica istituzionale nell’inaugurazione al Philadelphia Museum di Étant données, l’ineffabile installazione, volutamente postuma, con la quale Marcel Duchamp aveva di nuovo messo in mostra e in azione le retoriche dell’esposizione e il potere di feticizzazione e di legittimazione dell’istituzione museale. “La ‘critica istituzionale’, che concentrerà ora la sua attenzione sul museo come luogo – scrivono infatti gli esponenti della pattuglia critica formatasi alla fine degli anni Settanta attorno alla rivista ‘October’, un tempo organo della fronda al formalismo dominante e oggi egemonico riferimento per la critica d’arte globale, – includerà l’opera di Marcel Broodthaers in Belgio, quella di Daniel Buren a Parigi e quella di Michael Asher e Hans Haacke negli Stati Uniti. Questa attenzione alla cornice istituzionale del sistema estetico era stata sottolineata in molte occasioni, dal contributo situazionista agli eventi del maggio 1968 a Parigi alla teorizzazione postmoderna delle condizioni del ‘discorso nell’opera’ di scrittori come Michel Foucault e Jacques Derrida. Ma Dati…, collocata nella vera e propria cittadella del museo, andò al nocciolo del paradigma estetico, criticandolo, demistificandolo, decostruendolo”.
L’accento è qui dunque posto chiaramente sul museo, considerato cruciale almeno per la prima generazione di quegli artisti il cui lavoro è stato comunemente (ma non univocamente) ricondotto alle pratiche di critica istituzionale, un’esperienza che nel 1971, con l’annullamento della mostra al Guggenheim di Hans Haacke e il ritiro dell’opera di Daniel Buren dalla sesta edizione della Guggenheim International Exhibition, avrà un momento di già matura, e “museale”, affermazione. Si tratta certo di un anno da segnare in rosso in una cronologia che peraltro risente, ed è inevitabile, della pluralità delle interpretazioni e, oramai, delle ricostruzioni della vicenda della critica istituzionale, impresa in cui i critici hanno dato spesso mostra di tutta la loro, peraltro legittima, idiosincrasia. Non è un caso, credo, che a dominare la produzione editoriale sull’Istitutional Critique, come peraltro accade per quella relativa agli studi curatoriali, siano soprattutto le antologie, prevalentemente raccolte di scritti d’artista tra le quali sempre citata è quella, per molti versi esemplare, curata nel 2009 da Alexander Alberro e Blake Stimson, a cui si aggiungono volumi collettivi e atti di convegno, pubblicazioni più orientate alla documentazione che alla proposta di un quadro storico-critico unitario, che sono il frutto, sicuramente utile, del recente dibattito, prevalentemente di area anglofona, che ha interessato la critica istituzionale, oggetto purtroppo di occasionale, sebbene qualificata, attenzione nel nostro Paese. Anche di questo dà conto con puntualità Stefano Taccone con questo saggio che, scaturito da una ricerca svolta nell’ambito del dottorato in Metodi e metodologie della ricerca archeologica e storico-artistica dell’Università di Salerno, conserva del lavoro accademico la ricchezza delle letture, la precisione dei riferimenti e l’accuratezza delle analisi.
Alla ricostruzione critica dei dati e delle date, condotta con l’intenzione di offrire per la prima volta in Italia una visione organica della critica istituzionale a partire dai suoi rapporti con l’avanguardia e la neoavanguardia (Bürger e Foster sono qui illustri duellanti) e poi nelle sue diverse declinazioni e prospettive (anche invenzioni), l’autore, che già in passato si è misurato con questi temi dedicando nel 2010 una monografia ad Hans Haacke, associa però una sensibilità chiaramente militante che non consente di giungere a semplificate conclusioni. Per nulla pacificato, il discorso critico di Taccone non si nasconde, come è ormai invalsa consuetudine, nella pluralità orizzontale delle differenti tesi, di cui pure offre un accurato regesto, prendendo piuttosto parte, situando ogni volta il suo sguardo e la sua scrittura. Una scelta di rischiosa ma dichiarata parzialità che della critica istituzionale restituisce le ragioni e le contraddizioni con rigore e senza inutili cautele, lasciando gli angoli vivi, le opposizioni brucianti. Un piccolo ma netto esorcismo critico contro ogni tentazione, oggi fin troppo in mostra, di artistica sedazione.