Descrizione
Razmig Keucheyan
I bisogni artificiali
Come uscire dal consumismo
Traduzione di Gianfranco Morosato
Il capitalismo genera bisogni artificiali sempre nuovi. Quello di acquistare l’ultimo iPhone, ad esempio, o prendere l’aereo per raggiungere la città accanto. Questi bisogni non solo sono alienanti per la persona, ma anche ecologicamente dannosi. La loro proliferazione è alla base del consumismo, che a sua volta intensifica l’esaurimento delle risorse naturali e l’inquina- mento ambientale. Nell’era di Amazon, il consumismo raggiunge il suo “stadio supremo”.
Questo libro pone una semplice domanda: come mettere fine a questa proliferazione di bisogni artificiali? Come uscire, di conseguenza, dal consumismo capitalista? La riflessione si articola in capitoli tematici, dedicati al- l’inquinamento luminoso, al consumo compulsivo e alla garanzia dei beni, per elaborare una teoria critica del consumismo. Essa fa dei bisogni “autentici” definiti collettivamente, in rottura con i bisogni artificiali, il cuore di una politica dell’emancipazione nel xxi secolo. Lungo il percorso, il libro evoca la teoria dei bisogni di Karl Marx, André Gorz e Agnes Heller. Per questi autori, i bisogni “autentici” hanno un potenziale rivoluzionario. Come diceva Marx, “una rivoluzione radicale può essere soltanto la rivoluzione dei bisogni radicali”.
“Chiamo ‘artificiali’ i bisogni che, da un lato, non sono ecologicamente sostenibili, che danno luogo a un sovrasfruttamento delle risorse naturali, dei flussi energetici, delle materie prime; dall’altro, i bisogni che l’individuo o la collettività sentono che in qualche modo danneggiano la soggettività, i bisogni che non danno luogo a forme di soddisfazione duratura. Bisogni alienanti, in un certo senso. L’ossessione per l’ultimo ritrovato della tecnologia, per l’ultimo capo di abbigliamento, per l’ultimo modello d’auto, questa ossessione per la novità insita nel sistema capitalista è una delle dimensioni del carattere artificiale dei bisogni” (Razmig Keucheyan).
Razmig Keucheyan è professore di sociologia all’Università di Bordeaux. È autore di Constructivsme. Des origines à̀ nos jours (Hermann, 2007) e di Hémisphère gauche. Cartographie des nouvelles pensées critiques (La Découverte, 2017, 3a ed.). Ha curato un’antologia dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, con il titolo Guerre de mouvement et guerre de position (La fabrique, 2012). Per i nostri tipi ricordiamo La natura è un campo di battaglia. Saggio di ecologia politica (2019).
RASSEGNA STAMPA
il manifesto – 16.5.2021
Razmig Keucheyan, la natura è sempre una forza politica
TEMPI PRESENTI. Parla il sociologo francese, autore del libro «I bisogni artificiali» edito in Italia per ombre corte. «Le classi subalterne sono quelle le più colpite dall’inquinamento dalle catastrofi naturali. La crisi ecologica è stata causata dal capitalismo industriale, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento fino alla sua attuale esplosione»
di Massimo Filippi
Razmig Keucheyan, sociologo e militante della sinistra radicale, è una delle voci più interessanti tra quelle che hanno affrontato l’attuale crisi ecologica da una prospettiva marxista. Uno dei suoi saggi più importanti, non ancora disponibile in italiano, è Hémispère gauche (2010), in cui traccia una cartografia delle teorie critiche che si sono succedute a partire da Seattle. A questo sono seguiti La natura è un campo di battaglia (2014) e I bisogni artificiali (2019), entrambi tradotti in italiano per i tipi di ombre corte (il primo nel 2019 e il secondo nel 2021) e recensiti su queste pagine.
Nel primo Keucheyan propone un’ecologia politica in grado di mettere la natura al centro degli interessi della politica trasformativa. Nel secondo, individua nella lotta al consumismo una delle chiavi di volta per coniugare anticapitalismo ed ecologia a favore di un socialismo del XXI secolo.
Uno degli aspetti fondamentali del suo lavoro è la politicizzazione della natura. Che cosa l’ha spinta a sviluppare questo interesse?
Le società moderne sono in uno stato di crisi permanente, più o meno intenso a seconda del periodo storico. Mi hanno sempre interessato quelle che potremmo chiamare le «regole di trasformazione», le regole cioè che governano il passaggio da un tipo di crisi a un altro. Per esempio, mi interessa il modo in cui una crisi finanziaria diventa politica, come è stato il caso della crisi dei subprime del 2008 che ha comportato la crisi del debito sovrano della Ue nel 2010. Oppure il modo in cui l’attuale crisi demografica in Cina potrebbe determinare, negli anni a venire, una crisi politica ed economica.
Ci sono molti modi per definire la crisi ecologica e il più interessante è quello che la considera, in un modo o nell’altro, sottesa a tutte le altre o quantomeno che vi contribuisce. Il comune denominatore di tutte le crisi, talvolta evidente, talaltra nascosto. Il mio interesse per la questione ecologica prende le mosse dalla propensione alla crisi delle società moderne.
In molti stanno sviluppando una politica della natura, per esempio, Latour o Viveiros de Castro. Come si posiziona in questo ambito intellettuale?
La natura è sempre stata una forza politica. Bisogna però domandarsi se sia davvero una forza ontologicamente autonoma nel senso suggerito dagli autori menzionati. Certo, le risorse naturali influenzano le relazioni di potere. Per esempio, Timothy Mitchell in Carbon Democracy ha evidenziato come le caratteristiche «oggettive» del carbone e del petrolio non solo hanno determinato le modalità della loro estrazione e commercializzazione, ma hanno anche influenzato classi sociali e istituzioni politiche. Ritengo, tuttavia, che una forza politica nel senso pieno del termine debba essere in grado di proiettarsi nel futuro, di delineare strategie, di plasmare rappresentazioni e intenzionalità collettive.
Nei suoi saggi ricorri spesso al termine Antropocene. Perché non Capitalocene?
È corretto sostenere che la crisi ecologica è stata causata principalmente dal capitalismo industriale, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento fino alla sua attuale «esplosione». Il capitalismo è antecedente alla rivoluzione industriale, ma è stata questa a conferirgli alcuni dei suoi tratti più devastanti sull’ambiente; a questo riguardo si pensi in particolar modo alla sua dipendenza dall’energia fossile. Senza di questa il capitalismo sarebbe rimasto un sistema socioeconomico «locale», non si sarebbe globalizzato nel modo in cui lo ha fatto a partire dal XIX secolo. Pertanto: Capitalocene, senza alcun dubbio. Questo, però, non vuol dire che il concetto di Antropocene sia poco utile. Certo, esistono disuguaglianze ambientali dal momento che le classi subalterne sono quelle più colpite dall’inquinamento, dalle catastrofi naturali e dal collasso della biodiversità. Ma, almeno fino a un certo livello, anche le classi dominanti sono esposte a questi fenomeni. Per esempio, gli incendi ormai endemici in California distruggono anche i quartieri ricchi. Abbiamo, insomma, necessità di sviluppare un pensiero che ci permetta di comprendere la novità della condizione presente e, per far questo, non possiamo abbandonare il concetto di Antropocene. Capitalocene ed Antropocene non sono nozioni contrapposte ma in rapporto dialettico.
Che relazioni ci sono tra il razzismo ambientale e il razzismo denunciato da movimenti quali Black Lives Matter?
L’espressione razzismo ambientale è stata coniata dal sociologo americano Robert Bullard e, negli anni ’80, ha accompagnato lo sviluppo del movimento per la giustizia ambientale. La questione ecologica non è al centro degli interessi di Black Lives Matter. I network militanti contro il razzismo ambientale sono però diffusi negli Stati Uniti e connessi a Black Lives Matter. Lo stesso accade in altre parti del mondo, per esempio in America Latina. A mio parere, queste reti militanti rappresentano uno dei più creativi tra i movimenti sociali contemporanei.
Un altro dei suoi fronti di lotta anticapitalista è la critica dei bisogni artificiali. Come pensa sia possibile sviluppare una politica efficace contro l’immensa impresa consumista?
Il consumismo non discende da un qualche desiderio naturale che spingerebbe a possedere sempre più cose. Al contrario, è qualcosa di socialmente costruito e, per di più, è un fenomeno relativamente recente. Alcuni storici fanno risalire le origini della società del consumo al Rinascimento. Secondo me, però, è solo a partire dalla seconda metà del XX secolo che il consumo è stato «massificato», grazie soprattutto a tre fenomeni: la pubblicità, il credito e l’obsolescenza (più o meno) programmata. Le aziende hanno speso cifre crescenti per pubblicizzare i loro prodotti, la regolamentazione del credito al consumo è stata progressivamente allentata in modo da far sì che si potesse acquistare indebitandosi, e le merci sono state assemblate con materiali di sempre più scarsa qualità in modo da facilitarne un continuo ricambio.
Combattere il consumismo e il suo impatto catastrofico sul pianeta significa, tra le altre cose, abolire questi fenomeni o quantomeno limitarne gli effetti. Fenomeni fondamentali per la creazione dei bisogni artificiali: il nostro mondo sarebbe molto diverso se fossimo in grado di arrestare la colonizzazione della vita quotidiana da parte della pubblicità.
Ma basta questo per muoversi verso il socialismo?
Il capitalismo è produttivista: inizia con la produzione di merci e prosegue con la creazione di bisogni artificiali per poterle vendere. Dietro al produttivismo c’è la competizione: i capitali privati competono tra loro, il che comporta una crescita esponenziale della produttività. Il consumismo diventa così una necessità: si deve consumare per far spazio alla generazione successiva di merci. Una volta assunta questa prospettiva è facile definire cosa sia il socialismo. Per il socialismo i bisogni vengono prima della produzione. E quali siano i bisogni da soddisfare dovrebbe essere deciso con procedure democratiche e deliberazioni collettive – non dall’industria e dal mercato. Certo, questo pone una serie di sfide politiche e pratiche, sfide che, però, non sono insormontabili. La produzione dovrà soddisfare i bisogni democraticamente stabiliti, in quanto compatibili con regole ambientali e sociali decise collettivamente. L’ecologia è la continuazione della tradizione socialista.
Per concludere, come interpreta l’attuale pandemia?
Molto è stato scritto e ancora di più sarà scritto mano a mano che si individueranno i molti fattori che hanno causato questa pandemia. Ma ciò che dovremmo domandarci è se questo evento, che quasi nessuno aveva previsto, sarà in grado di portare, per usare una terminologia gramsciana, allo sviluppo di un nuovo senso comune. Un senso comune in grado di riconoscere che il nostro stile di vita sta mettendo a rischio la possibilità stessa della vita sulla Terra. Nel XIX e XX secolo, il movimento operaio ha trasformato la società non perché abbia promosso idee astratte, quali eguaglianza e giustizia – che pure sono importanti –, ma perché ha fatto sì che nella vita di tutti i giorni si potessero esperire nuove relazioni sociali di solidarietà, cura e auto-organizzazione. Ciò di cui oggi abbiamo bisogno è la capacità di inventare esperienze analoghe nell’ambito dei movimenti ecologisti. Forse, ciò che stiamo vivendo con questa pandemia può contribuire a far sì che tali esperienze possano svilupparsi.
il manifesto – 15.4.2021
Se il cielo senza stelle è un problema politico
SCAFFALE. «I bisogni artificiali. Come uscire dal consumismo», di Razmig Keucheyan per ombre corte
di Massimo Filippi
Per Kant due sono le cose che dovrebbero suscitare ammirazione: la legge morale dentro di noi e il cielo stellato sopra di noi. È noto che il capitalismo ha sempre lavorato per produrre meccanismi amorali di soggettivazione individuale e collettiva. Meno noto, o meglio, poco problematizzato è il fatto che l’incedere del capitale ha portato negli ultimi decenni, a causa dell’inquinamento luminoso, alla completa scomparsa del cielo stellato in molte regioni della Terra. È dalla perdita della possibilità di contemplare il cielo notturno, un’esperienza che ha accomunato tutte le epoche storiche in ogni area del pianeta, che si dipana la riflessione di Razmig Keucheyan in I bisogni artificiali. Come uscire dal consumismo (ombre corte, pp. 171, euro 16, traduzione di Gianfranco Morosato).
Il nascondimento del cielo stellato – metonimia quanto mai luminosa della sistematica appropriazione capitalistica della natura – si associa, tra gli altri, all’espansione incontrollata dell’urbanizzazione, alle percezioni di insicurezza sociale, alla pesca industriale. In breve, al conflitto tra chi sostiene le esigenze del cosmocapitalismo e chi rivendica il diritto all’oscurità. La scomparsa del cielo stellato, insomma, mette in evidenza che «i bisogni sono storici», anzi che «i bisogni non sono solo storici, ma anche politici».
A PARTIRE DA QUI e usando come bussola il pensiero di André Gorz e Agnes Heller, Keucheyan si impegna a individuare ciò che distingue i bisogni «autentici» da quelli artificiali. Operazione pericolosa in quanto sempre a rischio di cadere nella trappola di un naturalismo ingenuo se non addirittura reazionario. Rischio, però, da cui l’autore si smarca subito, sottolineando che anche i bisogni biologici hanno una storia e che «non tutti i bisogni “autentici” sono di ordine biologico». Il criterio per distinguere i due tipi di bisogni si va allora a collocare nel «punto di fusione tra critica dell’alienazione ed ecologia politica» (tra legge morale e cielo stellato): con un’ottica forse inconsapevolmente spinozista, il sociologo rintraccia tale distinzione nella capacità dei bisogni «autentici» di accrescere e dei bisogni artificiali di diminuire la potenza delle soggettività e del mondo naturale, tenendo presente che la distruzione della natura aliena soprattutto e più intensamente la vita delle classi subalterne.
DETTO ALTRIMENTI, «la (ri)definizione dei bisogni è dialogica e non ontologica»: alla violenza del circolo produzione/consumo va opposto un freno d’emergenza che, tramite «l’interazione con gli altri», possa renderci consapevoli di cosa si ha «veramente bisogno e quindi anche di ciò che è superfluo». Il che significa che la questione non si gioca su un registro dicotomico ma piuttosto nella ricerca collettiva di soglie per una distribuzione equa, democratica e sostenibile della buona vita.
Senza lasciarsi intimidire da questo «compito enorme», Keucheyan chiude il saggio elencando una serie di strategie che, allungando la vita delle merci, renderebbe il «valore d’uso (…) egemone rispetto al valore di scambio». «Non è ancora il socialismo», si affretta a dire, «ma comincia ad assomigliarvi». O, se preferite, non è la rivoluzione ma una strategia rivoluzionaria interessante. Una strategia che – come avrà modo di scoprire chi leggerà questo lucido contributo – mira all’arresto della macchina capitalista e non a una qualche forma di green economy. E, come sempre, «il tempo politico» della transizione (psichica, sociale e climatica) «dipende(rà) dalla lotta di classe».
Gli Stati Generali – 12 aprile 2021
Compro, quindi esisto
di Alida Airaghi
L’ultimo volume di Razmig Keucheyan pubblicato in Italia si intitola I bisogni artificiali, e riporta un sottotitolo esplicativo: Come uscire dal consumismo. Keucheyan, nato in Svizzera nel 1975, è docente di sociologia all’Università Paris-Descartes. Famoso in Francia per essere uno dei massimi conoscitori dell’opera di Antonio Gramsci, è redattore delle riviste Contretemps e Actuel Marx, ha pubblicato numerosi testi di critica politica, di ecologia e di pratiche di resistenza sociale. Dal 2008 è membro del Nouveau Parti anticapitaliste.
In Italia è stato pubblicato nel 2019 – sempre da Ombre Corte – il suo La natura è un campo di battaglia, che affronta il fenomeno del razzismo ambientale e della geo-strategia climatica, secondo cui il capitalismo internazionale concorre alla catastrofe ecologica grazie a strategie di profitto finanziario, localizzando le discariche di rifiuti tossici nelle aree povere del mondo, e adottando risposte militari per frenare le migrazioni dovute al surriscaldamento globale.
In quest’ultimo volume si analizza invece in maniera critica e appassionata il problema del consumismo che, corrompendo abitudini e coscienze degli abitanti del pianeta-Terra, induce in loro bisogni artificiali sempre nuovi, destinati a rimanere insoddisfatti e continuamente replicati. Già vent’anni fa Zygmunt Bauman indicava nella gratificazione dei desideri stimolata dal consumismo l’esigenza capitalistica di mantenere alta e sempre inappagata le domande degli acquirenti, pena la stagnazione economica del mercato internazionale. Razmig Keucheyan riprende ed estremizza le tesi del pensatore polacco, facendo proprie anche le istanze espresse da numerosi filosofi e sociologi contemporanei (Jean Baudrillard, Serge Latouche, Amartya Sen, Pierre Bourdieu, Bruno Latour …), polemicamente avversi alla sovrapproduzione delle merci e alla loro idolatria.
Scegliendo come esergo una frase di Karl Marx, “Una rivoluzione radicale può essere soltanto la rivoluzione dei bisogni radicali”, in otto capitoli (alcuni a tema, dedicati all’inquinamento luminoso, al consumo compulsivo e alla garanzia dei beni, altri più teoricamente collegati alla filosofia politica marxista), l’autore si propone di distinguere i bisogni legittimi, derivati da effettive necessità di mantenimento personale e sociale, da quelli egoistici e indifendibili dal punto di vista della salute pubblica e del sostentamento planetario.
“Chiamo artificiali i bisogni che, da un lato, non sono ecologicamente sostenibili, che danno luogo a un sovrasfruttamento delle risorse naturali, dei flussi energetici, delle materie prime; dall’altro, i bisogni che l’individuo o la collettività sentono che in qualche modo danneggiano la soggettività, i bisogni che non danno luogo a forme di soddisfazione duratura. Bisogni alienanti, in un certo senso. L’ossessione per l’ultimo ritrovato della tecnologia, per l’ultimo capo di abbigliamento, per l’ultimo modello d’auto, questa ossessione per la novità insita nel sistema capitalista è una delle dimensioni del carattere artificiale dei bisogni”. Esistono infatti bisogni biologici assoluti (mangiare, bere, ripararsi dal freddo), bisogni qualitativi e radicali (culturali, affettivi, sessuali) e bisogni standardizzati creati per rispondere alle richieste di consumatori divenuti essi stessi standardizzati nelle aspirazioni, nei gusti, nei modelli di vita. >> continua a leggere >>
COMMONWARE – 12/04/2021
Recensione di Matteo Bronzi
Razmig Keucheyan, I bisogni artificiali. Come uscire dal consumismo
«Di cosa abbiamo bisogno?»
Col moltiplicarsi della letteratura ecologica di questi ultimi anni, il lavoro della casa editrice Ombre Corte arriva sempre più al centro del dibattito, con l’introduzione e la traduzione di testi fondamentali per la costruzione di una prospettiva critica, conflittuale e soprattutto politica della crisi ambientale.
In questo dibattito si inserisce anche l’ultimo testo del sociologo francese Razmig Keucheyan, I bisogni artificiali. Come uscire dal consumismo, uscito a febbraio 2021 e tradotto in italiano da Gianfranco Morosato. Attraverso la rilettura del pensiero di André Gorz e Agnes Heller, Keucheyan costruisce una teoria critica dei bisogni atta a ricostruire alleanze fra il fronte dei movimenti ecologisti, le lotte delle lavoratrici e dei lavoratori della logistica e i consumatori e le consumatrici.
È un testo denso, che tenta di ricomporre una grande quantità di piani teorici, dall’ecologia politica alla critica della produzione e del consumo. Quello di Keucheyan è un approccio con un posizionamento chiaro, rivolto a una società occidentale, con la quale dialoga nel corso delle riflessioni. I bisogni artificiali sembra assumere una forma di manuale militante piuttosto che di testo teorico, un manifesto di critica della quotidianità, che apre spazi di conflitto in quella sfera che da sempre, nonostante le contraddizioni, è rimasta solida nel dogma reazionario della responsabilità individuale prospettato dall’ecologia liberale. >> continua a leggere >>
UN ASSAGGIO
Indice
9 Prologo. L’ecologia della notte
Il diritto all’oscurità; L’egemonia della luce; Sorvegliare e illuminare; Un movimento contro la “perdita della notte”; I bisogni, questione del secolo
27 Capitolo primo. Una teoria critica dei bisogni
Dall’alienazione all’ecologia politica; Alla ricerca dei bisogni autentici; I bisogni hanno una storia; I due paradossi dei bisogni radicali; L’essenza del genere
54 Capitolo secondo. Deprivazione
Biocapitalismo; Cosmocapitalismo; Movimenti di desalienazione; L’alienazione come deprivazione; Freni d’emergenza
66 Capitolo terzo. Dipendenza dalla merce
I disturbi del consumo compulsivo; Debitori anonimi; Lavoratori antialcolici; Filosofia della semplicità; Collettivi a misura d’uomo
80 Capitolo quarto. Cambiare le cose
Il sistema degli oggetti; “Make it new!”; La garanzia e la lotta di classe; Breve storia della garanzia; Cosa scegliere; Proteggere l’investimento; Il mercato delle estensioni della garanzia; Aprire la scatola nera della merce
122 Capitolo quinto. Un comunismo del lusso
I beni emancipati; Un lusso per tutti; L’infrastruttura dell’uguaglianza
132 Capitolo sesto. Politica dei bisogni
Nuove alleanze; Il consumatore come produttore; Da Il paradiso delle signore ad Amazon; Plusvalore logistico e vulnerabilità del capitale
150 Capitolo settimo. Alla ricerca della democrazia ecologica
Scenari di transizione ecologica; Lo spettro di una “dittatura sui bisogni”; Teatro delle negoziazioni; Una Assemblea del futuro?; Municipalismo libertario e potere dei consigli
173 Capitolo ottavo. Ritorno al futuro: Gramsci con Gorz
Prologo
L’ecologia della notte. Il diritto all’oscurità
Non figura nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, né nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948. Eppure il diritto all’oscurità sta diventando un nuovo diritto umano. L’oscurità, un diritto? L’“inquinamento luminoso” è una delle emergenze del nostro tempo. Esso segnala la crescente onnipresenza nelle nostre vite della luce artificiale, che a sua volta comporta la scomparsa dell’oscurità e della notte. Come le particelle sottili, i rifiuti tossici e i perturbatori endocrini, la luce, superata una certa soglia, diventa un inquinante. Negli ultimi cinquant’anni del secolo scorso, il livello di illuminazione nei paesi sviluppati è aumentato di dieci volte.
Di conseguenza, quello che in origine era un progresso, l’illuminazione pubblica e degli interni, che ha consentito una diversificazione e un arricchimento senza precedenti delle attività umane notturne, si è trasformato in un fastidio. L’inquinamento luminoso è innanzitutto dannoso per l’ambiente, per la flora e la fauna. Gli uccelli migratori, ad esempio, sono disorientati dall’alone luminoso che avvolge le città. Questo li porta a migrare per stabilirsi anticipatamente nelle loro zone estive, o a volare attorno a questo alone fino allo sfinimento e talvolta alla morte. Lo stesso vale per alcuni insetti attratti dalla luce. La luce naturale è un meccanismo di attrazione e repulsione che struttura il comportamento delle specie. Per le piante, l’intensità e la durata della luce sono un indicatore delle stagioni. Una luce troppo forte che prolunga artificialmente la giornata ritarda i processi biochimici con cui si preparano per l’inverno.
Ma l’inquinamento luminoso è soprattutto un disturbo per l’essere umano. Rende l’addormentamento difficile per molte persone, perché ritarda la sintesi della melatonina, nota come “ormone del sonno”. Il corpo umano è composto da un insieme di orologi biologici, i cui cicli sono determinati dal susseguirsi del giorno e della notte, anch’esso a fondamento di altri cicli mensili e stagionali. “Ritmo circadiano” è il termine che indica questo insieme: “circadiano”, dal latino circa (intorno) dies (giorno).
L’inquinamento luminoso altera questo ritmo. La melatonina regola la secrezione di altri ormoni e la sua deregolamentazione influi-sce su molti aspetti del nostro metabolismo: pressione sanguigna, stress, affaticamento, appetito, irritabilità o attenzione. Il colore blu, che è particolarmente presente nello spettro luminoso delle nuove tecnologie – schermi della televisione, del computer o dei telefoni cellulari – è particolarmente nocivo al riguardo.
Gli studi di medicina concordano nello stabilire un legame tra l’inquinamento luminoso e il cancro, in particolare al seno. Un articolo apparso nel 2008 in una rivista di cronobiologia – la scienza degli effetti del tempo sugli esseri viventi – mostra una covariazione tra il livello di illuminazione artificiale in una regione e la percentuale di cancro al seno in Israele. La luce artificiale è lungi dall’essere il solo fattore che incide sulla formazione dul cancro al seno. Ma è uno di essi. Oltre a regolare il nostro orologio biologico, la melatonina è un antiossidante, e una delle sue funzioni è combattere le cellule tumorali. Un’alterazione della sua ritmicità ha perciò un impatto sulla probabilità di esserne vittima.