C’era una volta la verità

 15.00

Alfredo Gatto

pp. 166
Anno 2024 (ottobre)
ISBN 9788869482991

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Descrizione

Alfredo Gatto
C’era una volta la verità. Da Socrate a Judith Butler

Apparteniamo, si dice, all’era della post-verità, un’epoca in cui il valore delle nostre asserzioni non poggia più sulla conformità tra ciò che diciamo e la realtà che le nostre parole descrivono. La verità sembra schiacciata dal peso del potere politico: si è trasformata in una forza che ha preso congedo dal mondo per poterlo meglio dominare. La domanda sorge allora immediata: come siamo giunti fin qui? Per rispondere non è sufficiente alzare lo sguardo da terra e descrivere ciò che ci circonda. È necessario andare più a fondo. E raccontare una storia.
Che cos’è, in fondo, la verità? È una grande narrazione, una risposta al disordine del mondo con cui abbiamo eretto cattedrali, armato eserciti o tentato di alleggerire la pressione della realtà per imporle un senso. Ogni epoca ha coltivato una propria idea di verità, dando vita a differenti prospettive che si sono intrecciate e affrontate, sfidate e sovrapposte. La verità è che la verità ha una storia, e perciò cambia. Dall’esperienza socratica alla modernità cartesiana, dalla riflessione epistemologica novecentesca ai Gender Studies, questo libro racconta e ripercorre i vari tentativi con cui l’uomo ha cercato di abitare e raccontare il mondo.

Alfredo Gatto insegna Storia della filosofia, Storia della filosofia moderna, Storia delle idee e filosofia della cultura presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Suoi contributi e articoli sono usciti in vari volumi e riviste accademiche. Tra i suoi lavori: René Descartes e il teatro della modernità (Inschibboleth, 2015); La théodicée perdue. Les vérités éternelles et la fragilité de la raison moderne (Parole et Silence, 2022).

RASSEGNA STAMPA

UN ASSAGGIO

Indice

7 Avvertenza e ringraziameni

9 Introduzione

19 1. Socrate: dire la verità

28 2. Platone: politica e verità

41 3. Aristotele: la disciplina della verità

50 4. La domanda di Pilato

58 5. Agostino: la verità di Dio nell’uomo

68 6. Gioacchino da Fiore: una nuova verità

78 7. Da Tommaso alla Scolastica moderna: una verità adeguata e autonoma

90 8. Descartes: una verità creata

192 9. Leibniz, Malebranche, Spinoza: una verità divina

121 10. Hegel: verità è errore

131 11. Nietzsche: la verità in polvere

142 12. Una verità ai margini: lo specchio infranto della natura

152 13. Butler: una verità non più essenziale

162 Conclusione


 

Introduzione

Diotima non avrebbe mai potuto immaginarsi una vita priva di verità eterne, ma ora constatava con stupore che ogni verità eterna ha due o più versioni.
Robert Musil, L’uomo senza qualità

Questo libro è figlio di un’esigenza e prova a rispondere ad una domanda. L’esigenza nasce dal bisogno di fare luce sul nostro presente. Apparteniamo, si dice, all’era della post-verità, un’epoca in cui il valore delle nostre asserzioni non riposa sulla conformità tra ciò che diciamo e il mondo che le nostre parole descrivono. Alla verità come corrispondenza tra discorso e realtà si è sostituita la verità come forza in grado di piegare la realtà al contenuto del discorso. Non è più la simmetria tra le parole e le cose a decidere della verità di quanto sosteniamo, ma è la parola a produrre le cose per plasmarle in vista delle proprie esigenze. Il tema, in realtà, è molto antico e segna l’inizio dell’indagine filosofica. È lo scontro epocale tra il sofista e il filosofo, tra chi ritiene che il logos abbia una funzione poietica, creatrice, capace di adeguare il mondo all’efficacia della persuasione, e chi è convinto invece che il discorso, per poter rispecchiare la realtà, debba guardare ad una norma che lo abita ma che gli è, al contempo, estranea, perché non dipende integralmente dal suo volere. Il conflitto è antico, ma è soltanto oggi che il progetto sofistico sembra essere diventato una sorta di seconda natura, un manto depositato sulla realtà per privarla della sua consistenza.
È naturale domandarsi perché le cose siano potute andare così. L’attività del pensiero non si riduce infatti a riflettere ciò che gli sta di fronte, ma agisce più in profondità, chiedendo ragione della ragione di quanto ci accade. Veniamo allora alla domanda: perché qualcosa come la post-verità è stata possibile? Una risposta ha a che fare con il percorso compiuto da una parte della filosofia contemporanea sulla scia della riflessione nietzschiana. Nietzsche ha filosofato con il martello e ha mostrato ai posteri che le campane della verità oggettiva, stabile, immutabile, hanno sempre suonato a vuoto. Si è proceduto così a smascherare gli idoli, sottolineando la natura favolistica e affabulatoria del mondo vero. Il gesto nietzschiano è stato interpretato come il segno di un processo di liberazione, un modo per emanciparsi dalla pressione ingombrante di una realtà intesa come un grumo di potere epistemico e politico collocato nel cuore della nostra esperienza del mondo. Il post-strutturalismo, la decostruzione, il pensiero debole – in breve, e con brutale sintesi: il post-moderno – hanno tradotto l’intuizione nietzschiana in progetto filosofico, nella convinzione di potersi affrancare dal peso di una verità intesa come fondamento e autorità. Tuttavia, in uno dei più classici esempi di eterogenesi dei fini, la tappa conclusiva di questa avventura ha finito per smentire le premesse che l’avevano ispirata. Il post-modernismo non ha posto le basi per indebolire e ingentilire quella volontà di domino nascosta dietro la maschera della verità: anziché incrinare l’assolutezza del vero, ha creato uno spazio potenzialmente vergine, un vuoto ideale che ha finito per essere occupato dalla ragione del più forte, e da una ragione che si scopre ora più forte perché liberata anche dalla necessità di trovare nella realtà – nella sua univoca oggettività, negli stati di cose che la definiscono – la giustificazione del proprio dominio.
Il post-moderno è quindi il presupposto filosofico dell’era della post-verità. Questa lettura produce delle conseguenze anche sull’ontologia del nostro quotidiano. A tal proposito, si è sostenuto che la fase storica in cui viviamo sia caratterizzata da una crescente smaterializzazione del mondo. La digitalizzazione della realtà, che sovrappone le informazioni alle cose per sostituirsi infine ad esse, avrebbe inaugurato un regime post-fattuale, mettendo fine all’epoca della verità, intesa qui come qualcosa di saldo, capace di resistere ad ogni manipolazione. L’aumento smisurato delle informazioni ha svuotato di senso e pregnanza la bussola vero-falso, che aveva sempre guidato le nostre affermazioni sul mare magnum della realtà in un porto sicuro. La derealizzazione del mondo – il passaggio dalle cose alle non-cose, ossia alle informazioni – ci ha condotto in uno status post-fattuale, il perfetto brodo di coltura per il paradigma della post-verità. In un contesto in cui ciò che esiste – nella sua fatticità, nella sua carne – non è più la pietra di paragone per stabilire il valore di verità dei nostri enunciati, verrà giudicato vero quel discorso capace di imporsi in forza della sua efficacia. La post-verità finisce per costituire il regime epistemico delle non-cose.
Le posizioni qui sintetizzate offrono una possibile risposta alla domanda posta in precedenza. Ma questa linea di fuga non è sufficiente. Bisogna ampliare l’orizzonte e chiedersi non tanto, o non solo, per quale ragione esista qualcosa come l’epoca della post-verità, ma perché siamo, almeno a partire dal moderno, ossessionati dalla verità. Per rispondere a questa domanda non basta alzare gli occhi da terra e osservare la realtà circostante. È necessario andare più fondo. E raccontare una storia.