Descrizione
C’era una volta (uno scrittore) a Hollywood
La scrittura di/e Quentin Tarantino
Introduzione e cura di Enrico Botta e Sara Corrizzato
Spaziando dagli American studies alla filologia e alla linguistica, il volume si propone di esplorare l’opera di Quentin Tarantino attraverso una serie di saggi che si concentrano sugli aspetti più specificamente legati alla sua scrittura. L’idea di fondo è che le interazioni tra sceneggiature e film, i numerosi riferimenti intertestuali, le manipolazioni di topoi e stilemi derivanti da generi artistici differenti contribuiscono a creare un ipertesto in cui la narrazione cinematografica si arricchisce e completa attraverso quella letteraria; inoltre, il processo di costruzione di senso si complica quando entrano in azione ulteriori componenti, come, per esempio, la traduzione in altre lingue e la scrittura dei sottotitoli.
Il volume cerca così di dimostrare come le molteplici declinazioni della scrittura definiscono un’opera che non può essere considerata come un end-product volto a intrattenere il pubblico, ma come un palinsesto testuale e audiovisivo che richiede interpretazioni molteplici e interrelate.
Contributi di Serena Fusco, Serena Demichelis, Beatrice Melodia Festa, Antonio Di Vilio, Valentina Romanzi, Nicola Paladin, Enrico Botta, Silvia Bruti, Elena Di Giovanni, Ilaria Parini, Sara Corrizzato, Maria Freddi, Francesca Bianchi, Dora Renna
Enrico Botta si occupa di letteratura statunitense del xvii e del xix secolo e ha collaborato con le Università dell’Aquila e di Verona. Attualmente sta lavorando sul rapporto tra letteratura e impero durante l’età della Ricostruzione. Tra le sue pubblicazioni: Fate in His Eye and Empire on His Arm. La nascita e lo sviluppo della letteratura epica statunitense (La scuola di Pitagora, 2017) e “Desiderai un nuovo mondo”. La letteratura dell’impero americano sulla Ricostruzione (ombre corte, 2020).
Sara Corrizzato è ricercatrice presso il Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere dell’Università degli Studi di Verona, dove insegna Lingua Inglese nei corsi triennali e magistrali. Le sue principali aree di ricerca includono il linguaggio audiovisivo, la traduzione audiovisiva, la Corpus Linguistics e l’ESP (English for Specific Purposes). Ha pubblicato la monografia Spike Lee’s Bamboozled: A Contrastive Analysis of Compliments and Insults from English into Italian (2015). Dal 2010 fa parte della redazione di “Iperstoria”.
UN ASSAGGIO
Indice
7 Introduzione – di Enrico Botta e Sara Corrizzato
17 Fuori dal labirinto, dove? Il “cinema parziale” di Quentin Tarantino – di Serena Fusco
38 “Recognizable troops for your universe”: Tarantino e il personaggio tra autorialità e attorialità – di Serena Demichelis
56 William Faulkner e Quentin Tarantino: etica ed estetica della redenzione, da The Sound and the Fury a Pulp Fiction – di Beatrice Melodia Festa
69 “Want more Rick and Cliff?”: espansioni e possibilità narrative in Once Upon a Time in… Hollywood (2019 e 2021) di Quentin Tarantino – di Antonio Di Vilio
86 Tarantino, mitopoiesi e retrotopia – di Valentina Romanzi
101 Le letture di Quentin Tarantino: Gunhawks e l’influenza della tradizione fumettistica statunitense in Django Unchained – di Nicola Paladin
118 “Con la fine della Guerra civile inizia il selvaggio West”: quando Django incontrò Zorro – di Enrico Botta
131 Multilinguismo e varietà nei dialoghi di Tarantino – di Silvia Bruti
150 Traduzione e censura nel cinema ieri e oggi: Quentin Tarantino e il doppiaggio italiano – di Elena Di Giovanni
170 “You know, that’s from Quadrophenia”. Quentin Tarantino e le citazioni: strategie di traduzione nel doppiaggio italiano – di Ilaria Parini
187 “Tu non hai alcuna idea di cosa vuol dire essere un nero e dover affrontare l’America”: gli afroamericani nella sceneggiatura tarantiniana – di Sara Corrizzato
205 La scrittura per il cinema di Tarantino: un approccio linguistico – di Maria Freddi
224 Once Upon a Time in… Hollywood: un caso di studio per analizzare la relazione romanzo-film tramite la linguistica dei corpora – di Francesca Bianchi
248 “No one’s gonna give me money to make a movie”. Quentin Tarantino, la rappresentazione di sé e la sua carriera: un’analisi linguistica – di Dora Renna
271 Le autrici e gli autori
Introduzione
di Enrico Botta e Sara Corrizzato
L’emporio di Minnie è molte cose, tranne un emporio.
La scrittura di/e Tarantino; ossia, la scrittura è Tarantino
Transcodificando la sceneggiatura di Once Upon A Time in Hollywood in un film e poi riadattando quest’ultimo in un romanzo, Tarantino attiva un processo di movie-novelization che gli permette, da un lato, di riprendere un sottogenere letterario da lui particolarmente amato e in voga negli anni Settanta, dall’altro, di “esplorare ulteriormente i [suoi] personaggi e il loro mondo in un’opera letteraria che possa […] affiancare la sua controparte cinematografica” (citato in Tucker 2020). A partire dal richiamo mitico e favolistico sotteso nel titolo di leoniana memoria, l’interazione tra sceneggiatura, film e romanzo fa emergere aspetti che altrimenti resterebbero celati all’interno di una sola modalità artistica.
Questo processo di costruzione di senso in termini transmediali è una costante in Tarantino e, tra i vari esempi rintracciabili all’interno della sua produzione, quello di Inglourious Basterds è particolarmente significativo. Il personaggio del sergente Donny Donowitz, l’orso ebreo interpretato da Eli Roth, è caratterizzato sin dalla prima comparsa in scena da una mazza da baseball con cui uccide i nazisti; una sorta di feticcio la cui origine non viene rivelata nel film ma è ben definita nella sceneggiatura: poco prima di lasciare Boston e il suo lavoro di barbiere per partire per il fronte, Donny – scrive Tarantino – compra la mazza più pesante disponibile in città e vi incide i nomi dei parenti e degli amici ebrei che vivono in Europa. Il personaggio stesso spiega il suo intento alla signora Himmelstein:
Donny: […] Vado in Europa. E sistemerò le cose.
Signora Himmelstein: E come intendi farlo, Salvatore?
Tiene in mano la mazza.
Donny: Con questa.
Signora Himmelstein: E cosa intendi fare esattamente con quel giocattolo?
Donny: Picchierò a morte tutti i nazisti che troverò con questa mazza.
Alla fine di un lungo flashback di cinque pagine, il lettore della sceneggiatura (a differenza dello spettatore) scopre dei particolari significativi legati alla mazza da baseball: la promessa fatta da Donny di eliminare quanti più nazisti possibili e l’incisione sul legno dei nomi a cui dedicare la morte di ogni tedesco. Ciò che sembra importante a questo punto non è tanto constatare come un intero passo della sceneggiatura sia stato escluso dal film, quanto sottolineare la funzione del passo stesso nel definire un ipertesto in cui la narrazione cinematografica si arricchisce e si completa attraverso quella letteraria.
Se in Inglourious Basterds il lettore acquisisce maggiori informazioni sulla trama dell’opera e sulla psicologia dei personaggi attraverso la sceneggiatura, in The Hateful Eight più di un protagonista attiva un processo simile a livello intradiegetico quando ricorre alla parola scritta per avere più dettagli sugli altri personaggi. Nel western uscito nel 2015, infatti, la diffidenza che qualcuno stia dissimulando la propria identità è presente sin dai momenti iniziali: il passato ambiguo del Maggiore unionista Marquis Warren e la sua fuga dal campo di prigionia confederato vengono raccontati – e mai mostrati in termini visivi – direttamente dal protagonista e dagli interventi che il nuovo sceriffo di Red Rock, Chris Mannix, apporta alla narrazione orale. Il ricorso all’uso della parola, piuttosto che dell’immagine, arriva all’apice con la lettera che Abraham Lincoln avrebbe scritto a Warren e con lo svelamento della messa in scena ingegnata dal Maggiore di utilizzare la missiva come un lasciapassare presidenziale. Un testo scritto, quindi, contribuisce non solo a rivelare la vera identità di uno dei protagonisti ma a definire il proprio ruolo di ex ufficiale nordista afroamericano negli Stati Uniti post Guerra civile: “Le uniche volte in cui un nero è in salvo è quando l’uomo bianco è disarmato e questa lettera ha avuto il desiderato effetto di disarmare l’uomo bianco”, afferma Warren rivolgendosi a John Ruth.
In The Hateful Eight c’è un altro riferimento alla scrittura particolarmente significativo quando John Ruth, con l’intento di conoscere quelli con cui dovrà trascorrere la notte all’interno dell’emporio, si rivolge a Joe Gage, impegnato a scrivere in un angolo:
John Ruth: Cosa scrivi amico?
Joe Gage: L’unica cosa di cui sono esperto.
John Ruth: E sarebbe?
Joe Gage: La storia della mia vita.
John Ruth: Scrivi la storia della tua vita?
Joe Gage: Ci puoi giurare
John Ruth: Ci sono anche io?
Joe Gage: Ci sei entrato ora!
John Ruth: Visto che ti piace tanto scrivere storie, raccontami la storia che ti ha portato qui!
Il boia non crede alla storia raccontata dal cowboy e afferma in tono minaccioso: “non sembri affatto uno di quelli che torna a casa per Natale”.
In un racconto la cui trama procede attraverso le continue frizioni tra quello che i personaggi dicono di essere e quello che in realtà sono, l’atto di scrivere la propria biografia da parte di Joe Gage si colloca all’interno della cornice narrativa di primo livello – la storia dell’incontro degli otto odiosi – che, a sua volta, rientra nella narrazione di secondo grado della finta autobiografia – con il boia che inizia a far parte del suo contenuto.
I tre esempi proposti dovrebbero dimostrare come la parola, nella sua dimensione scritta e orale, estenda e approfondisca il linguaggio cinematografico, non solo ridefinendo l’interazione tra il ruolo dello sceneggiatore e quello del regista, ma riconoscendo uno specifico statuto artistico allo screenplay. Scrive in merito Tarantino: “Sono uno scrittore […]. Voglio che [la sceneggiatura] funzioni sulla pagina, prima di tutto. Quando scrivo la sceneggiatura, non penso allo spettatore che guarda il film. Penso al lettore che legge la sceneggiatura” (Gross 2009). L’idea di scrivere gli screenplay come fossero romanzi (Tarantino 2016) mette in moto un processo creativo in cui le varie forme artistiche si definiscono e interagiscono in maniera reciproca.
Con il suo romanzo d’esordio, la novelization di Once Upon a Time in Hollywood, e il libro di critica cinematografica Cinema Speculation, Tarantino ha deciso di fare della scrittura la sua attività principale, proprio come molti registi negli ultimi anni, da Ethan Coen a Oliver Stone e Guillermo del Toro. Tuttavia, si tratta di testi che per stile e contenuti sembrano imprescindibili dal mondo del cinema, e profondamente intertestuali e interdiscorsivi rispetto a esso. Ciò che sembra particolarmente rilevante, allora, non è tanto il desiderio di scegliere la scrittura come un mezzo di comunicazione più veloce, meno costoso, con meno burocrazia e meno dirigenti che si intromettono rispetto a quello cinematografico; il punto, invece, è di carattere artistico, o meglio, di propensione artistica. In fondo, le sceneggiature di Tarantino hanno sempre avuto una notevole qualità letteraria e, in particolare, romanzesca raggiunta con costruzioni di trame non lineari e convergenti, forti richiami intertestuali, abbondanza di dialoghi e profondità introspettiva.
Come riportato in un’intervista con Martin Scorsese su “DGA Quarterly”, Tarantino starebbe scrivendo un romanzo su un veterano della Seconda guerra mondiale che, tornato a casa, è disgustato dalla banalità con cui Hollywood rappresenta i conflitti sugli schermi (Scorsese 2019). Alter ego di Tarantino, il protagonista si appassiona gradualmente alle opere di quei cineasti stranieri, tra cui Kurosawa e Fellini, che cercano di rendere in termini molto più articolati e maturi la complessità della vita e del mondo. Da questi pochi particolari che conosciamo emerge comunque l’importanza della transmedialità dell’opera: un romanzo incentrato sul cinema scritto da un regista e sceneggiatore che sembrerebbe avere scelto definitivamente la scrittura come prima attività dopo la realizzazione del suo decimo film. […]