Descrizione
Al di qua e al di là dei confini
Sguardi alle radici delle migrazioni contemporanee
Introduzione e cura di Gustavo Gozzi
I saggi raccolti in questo volume mirano ad approfondire e a chiarire la complessità dei fenomeni migratori attraverso un ripensamento critico delle nostre narrazioni sulla migrazione, delle nostre modalità di trattare la differenza culturale e una messa a fuoco degli scenari sociali, politici ed economici in cui le vite di milioni di persone migranti prendono forma. Questo ripensamento si impone per almeno due ordini di ragioni: la prima riguarda l’attribuzione di senso e la possibilità di realizzare una diagnosi non “fallace” del disagio psichico, in quanto per comprendere le sofferenze e le sintomatologie di chi emigra è necessario analizzare in modo rigoroso gli scenari economico-sociali entro i quali si strutturano e ai quali spesso rappresentano una reazione, sebbene soggettivamente mediata; la seconda è una ragione epistemologica, che riguarda la nostra relazione con l’alterità e, in particolare, il ruolo che attribuiamo alle teorie e ai concetti di altre culture (concezioni dei legami sociali, dell’identità, dei ruoli genitoriali, del corpo, della malattia e della sua cura). Quale statuto attribuiamo agli spiriti dell’acqua, ai rituali di possessione, al vudù? Quanto siamo disposti ad “assumerli per intero” e a considerarli veri e propri dispositivi teorici per pensare la realtà? O quanto, al contrario, tendiamo a trattarli come credenze che devono essere superate e dissolte una volta entrate a contatto con le nostre categorie culturali? (Dalla Presentazione del ciclo di seminari).
Gustavo Gozzi, già professore di Diritti umani e Storia del Diritto internazionale nell’Università di Bologna. Professor of Colonial Heritage, Euro-Mediterranean Relations, Migrations, Multiculturalism at The Breyer Center for Overseas Studies in Florence – Bing Overseas Studies Program – Stanford University. Tra le sue ultime pubblicazioni, Umano, non umano. Intervento umanitario, colonialismo, “primavere arabe” (il Mulino, 2015). Per i nostri tipi ha curato Islam e modernità di Hamadi Redissi (2014).
UN ASSAGGIO
Introduzione
di Daniela Iotti
Questo volume raccoglie i contributi presentati nell’ambito della sedicesima edizione dei Seminari di aggiornamento in ambito etnoclinico che l’Associazione Diversa/mente organizza ogni anno dal 2001.
Nel corso dei quattro incontri che hanno costituito il ciclo di Seminari è stato affrontato il tema delle migrazioni contemporanee e nello specifico dei richiedenti asilo, coinvolgendo esperti e studiosi appartenenti a differenti discipline, accumunati da un impegno sul campo.
Da alcuni anni il tema della migrazione è una delle questioni più trattate nei mass media, negli incontri istituzionali e nelle politiche sociali di tutti i paesi occidentali, ma viene di solito affrontato con allarmismo, banalizzato, decontestualizzato o medicalizzato senza che si arrivi a una reale comprensione delle cause e delle conseguenze dei movimenti migratori attuali.
Su questi temi abbiamo voluto ragionare andando alla radice dei fenomeni e cercando di coglierne gli intrecci e le connessioni con la contemporaneità.
Per fare ciò si è reso necessario un approccio multidisciplinare in cui le diverse discipline – economia, politica, diritto, psicoanalisi e antropologia – non si limitano a portare il proprio contributo di conoscenza, ma si interrogano a vicenda per cogliere i nessi causali, le zone d’ ombra, i non detti, le mistificazioni, le violenze di cui è intessuta la complessità del fenomeno migratorio.
Non è possibile infatti fare un’analisi seria dei fenomeni migratori attuali senza considerare la dimensione sociopolitica ed economica in cui hanno luogo.
Le migrazioni contemporanee non sono il risultato di qualche calamità naturale, di qualche cruento conflitto locale o della attività di trafficanti senza scrupoli, queste sono soltanto cause secondarie. È necessario analizzare la storia coloniale degli ultimi due secoli e soprattutto la fase storica attuale, che possiamo indicare con il termine “neo-liberismo”, per comprendere lo spostamento epocale di milioni di persone e le condizioni di vita in cui si trovano.
La società contemporanea, caratterizzata dal modello del libero mercato e dalla globalizzazione, che il sociologo Zygmunt Bauman definisce società liquido-moderna, è come ogni società luogo di progettazione delle forme della comunità umana e dei modelli di ordine legislativo, politico ed economico. La società liquido-moderna è basata sul consumismo che, come sappiamo, genera una enorme massa di rifiuti. Il concetto di “rifiuti” si applica anche agli esseri umani poiché il tipo di organizzazione sociale odierna considera proprio in questo modo gli uomini che non possono più essere impiegati nell’ambito produttivo, in particolare in quella attività produttiva che è il consumo. La modernità produce quindi scarti umani, quelli che mal si adattano al modello di società progettato. I rifiuti contemporanei sono persone private dei loro modi e mezzi di sopravvivenza, sono gli esuli, i richiedenti asilo e i rifugiati della contemporaneità.
Gli Stati Nazionali, al di là dei trattati internazionali in materia di immigrazione, legiferano sull’accoglimento e sull’esclusione degli esuli e hanno fatto della questione della sicurezza uno degli ultimi baluardi di auto-legittimazione nei confronti dei cittadini. Il ruolo degli Stati sovrani infatti, proprio a causa della globalizzazione e del modello di libero mercato, si è notevolmente indebolito. Come afferma Jurgen Habermas, il capitalismo finanziario globalizzato si sottrae all’intervento della politica e “le élite politiche mettono in opera in maniera tecnocratica gli imperativi dei mercati senza offrire praticamente alcuna resistenza”. In sintesi il nuovo ordine sociale riproduce precarietà e incertezza e genera violenza, lotte tra gruppi e difesa estrema dei confini sociali. Gli scarti umani della nostra contemporaneità costituiscono facile bersaglio su cui scaricare le ansie e i timori di una collettività precaria.
È in questo contesto globale che prendono forma le politiche di aiuto umanitario e di richiesta d’asilo a cui siamo chiamati a partecipare come operatori, come amministratori, come educatori, come psicologi o psichiatri.
Ci sono validi motivi per ritenere che i nostri interventi di aiuto nei confronti delle popolazioni migranti e dei richiedenti asilo, se non saranno capaci di ripensarsi a partire da quanto finora delineato, possano inconsapevolmente svolgere una funzione di connivenza con politiche di esclusione e di de-soggettivazione delle persone migranti.
La relazione di aiuto con i richiedenti asilo, ad esempio, è quasi sempre improntata all’assistenzialismo, modalità di relazione in cui l’altro è posto nel ruolo di vittima, reso passivo e subordinato ad un aiuto paternalistico, e alla medicalizzazione attraverso cui le sofferenze e le tragedie vissute dai richiedenti asilo vengono ricondotte a meri sintomi psichiatrici considerati universali e individuali – dal ptsd, all’ansia, alla depressione – trasformando la violenza politica e la sofferenza collettiva in malattia individuale. Queste modalità di aiuto rischiano di riprodurre quella ambivalenza tipica del “nuovo colonialismo liberale” di cui parla Gustavo Gozzi nel suo libro Umano, Non umano: da un lato il migrante viene rappresentato come dotato di una umanità inferiore (sottosviluppato, non ancora modernizzato, culturalmente arretrato, fragile e vulnerabile), dall’altro si ritiene che la sua emancipazione, civilizzazione e progresso possano avvenire solo grazie ai nostri “valori universali” e alla imposizione delle forme dello Stato Nazione e dei modelli economici neo-liberali.
Perché diventa prioritario parlare di tutto ciò per chi si occupa di clinica e di cura delle persone?
Fondamentalmente per due ragioni: la prima riguarda l’assetto epistemologico delle discipline della cura. La psicologia, la psichiatria e le scienze psico-sociali in generale, coinvolte nella gestione dei migranti e dei richiedenti asilo (dalle valutazioni per le Commissioni territoriali, alla presa in carico delle loro sofferenze), non possono chiamarsi fuori dal contesto culturale e socio-politico in cui operano poiché le loro epistemologie, i criteri di valutazione, le teorie e le pratiche che utilizzano, ne sono intrinsecamente costituite, come Michel Foucault fin dagli anni Sessanta ha acutamente dimostrato in numerose sue opere.
Si tratta di riflettere sulla nostra relazione con l’alterità e in particolare sul ruolo che attribuiamo alle teorie e alle pratiche delle altre culture, alla loro concezione dei legami sociali, dell’identità, dei ruoli genitoriali, del corpo, della malattia e della sua cura. Siamo in grado di prendere sul serio ciò di cui gli altri ci parlano (i rituali di possessione della donna nigeriana, le preoccupazioni del papà marocchino, la preghiera del giovane iraniano) o addomestichiamo le differenze riconducendole esclusivamente ai nostri parametri? Quale statuto attribuiamo a concezioni della esistenza diverse dalle nostre? quanto siamo disposti a considerarli veri e propri dispositivi per pensare ed elaborare l’esperienza, rendendola utilizzabile per l’individuo, o quanto tendiamo piuttosto a ridurle a sintomi o tutt’al più a trattarle come superstizioni che il contatto con le nostre categorie culturali dovrebbero dissolvere? (Roberto Beneduce)
Le rappresentazioni svalorizzanti e grossolane dei sistemi concettuali delle culture altre, sosteneva Ernesto de Martino fin dagli anni Sessanta nei suoi studi antropologici sulla magia nel Sud di Italia, non stanno nella pochezza e grossolanità di ciò che osserviamo, ma denunciano la superficialità di chi osserva. Le nostre rappresentazioni e spiegazioni segnalano un limite “che va ricercato non già nella stupidità e nella ignoranza delle plebi, ma nelle stesse forme egemoniche di vita culturale, e in ultima istanza nella stessa ‘alta’ cultura”.
La seconda ragione che ci ha condotto a organizzare questi seminari riguarda la direzione della cura. Per comprendere le sofferenze e le sintomatologie di chi emigra è necessario analizzare in modo rigoroso gli scenari economico- sociali entro i quali si strutturano, per non incorrere in quella “fallacia categoriale” di cui parla Kleinman e per non utilizzare la scienza psichiatrica o psicologica come giustificazione della inferiorità dei migranti. Le vicende sociopolitiche a cui abbiamo fatto riferimento (globalizzazione, distruzione sistematica delle economie locali e dei legami sociali tradizionali, neocolonialismo) incidono pesantemente sulle condizioni psicologiche delle popolazioni del terzo mondo e in particolare sulla popolazione migrante e spesso tessono la trama dei loro sintomi. Una pratica clinica e una analisi delle strutture psichiche, come sosteneva Fanon, risulta impossibile se si mettono da parte il contesto geografico, storico e culturale.
La psiche non è mai limitata allo spazio del nostro cervello, la psiche è anche la piazza in cui viviamo, la mensa pessima in cui mangiamo, l’ufficio con le luci al neon in cui lavoriamo, i ritmi di vita e le ingiustizie sociali.